La prima puntata della ricerca multimediale di un’economista tra le case in cui vivono gli italiani nella capitale britannica
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/10/silvia.jpg[/author_image] [author_info]di Silvia Sitton. Convinta che per spiegare l’economia sia più utile raccontare storie piuttosto che disegnare grafici e risolvere equazioni, sta lavorando a un progetto per raccontare l’economia dell’abitare partendo dalle storie degli abitanti. Il suo blog è irughegia.[/author_info] [/author]
14 ottobre 2014 – La casa a Londra, poco importa se in affitto o di proprietà, è un ambito in cui si registrano una crescente disuguaglianza ed esclusione: la scarsità dal lato dell’offerta e i valori immobiliari elevatissimi delle zone centrali hanno reso l’abitare un problema molto diffuso.
In questo contesto, complice la crisi politica ed economica in corso, si sta sviluppando uno spazio di sperimentazione di pratiche e modelli alternativi di abitare che mettono in discussione il significato tradizionale di proprietà privata e mettono in piedi nuove logiche che sembrano facilitare la diffusione di pratiche di condivisione nella vita quotidiana:
Forme di abitare alternativo come per esempio houseboat, cohousing, occupazioni di edifici vuoti (squatting o contratti di property guardian), residenze temporanee low cost, formule di acquisto in sharing, sfumano il confine tra quello che è “personale” e quello che è “comune”, così come normalmente si pensa quando si parla di casa.
Per conoscere meglio il magmatico universo dell’abitare alternativo abbiamo pensato di partire da Londra, perché “a Londra si trova tutto ciò che la vita può offrire”, come ha detto Samuel Johnson qualche secolo fa, e perché ancora oggi è considerata la capitale delle nuove tendenze.
Per semplificarci la vita abbiamo scelto il punto di vista degli italiani che abitano a Londra, facendoci raccontare direttamente da loro com’è fatta la casa in cui vivono e come vivono in quella casa.
Attraverso parole e immagini abbiamo provato a costruire un ritratto dell’abitare a Londra scattato dal punto di vista di chi dall’Italia si è trasferito a vivere là, andando a caccia di modelli di abitare alternativo, come le houseboat, gli squat, i contratti di property guardian o formule di acquisto in sharing, ma anche di chi a Londra è riuscito a comprare casa e adesso, mettendola in affitto e tornando in Italia, potrebbe smettere di lavorare e vivere di rendita.
Per sei mesi abbiamo chiesto a questi italiani di raccontarci la loro vita e le loro abitudini domestiche e di fotografarci la loro casa e il loro quartiere, coinvolgendo ciascuno in un “gioco etnografico” fatto di diari digitali e esperimenti fotografici.
In questo modo siamo entrati nella houseboat di Giulia, che vive in affitto nella piccola barca di un’amica, ancorata sul canale vicino a Victoria Park e che quando c’è il sole fa colazione sul tetto, che poi è anche il giardino; abbiamo conosciuto i compagni di equipaggio di Silvia, che vivono con lei in una vecchia chiesa sconsacrata trasformata in uno squat dove si spendono circa 3 pounds al mese, tra bollette e cassa comune e dove vengono spesso organizzati spettacoli di teatro, concerti e altre performance artistiche aperte al vicinato; siamo stati anche a Ealing Brodway nella bella casa anni Trenta di Peppe, che spende 2500 sterline al mese di affitto, pagati in larga parte del contratto di lavoro della moglie.
Abbiamo ripercorso i tanti traslochi di Enrico, arrivato a Londra fresco di laurea tredici anni fa e che, dopo aver condiviso appartamenti, camere e divani, è arrivato a comprarsi un appartamento in una delle zone più in della città; abbiamo scoperto cos’è un property guardian, entrando nel pub abbandonato di proprietà di un importante museo cittadino, dove il marito di Gemma ha abitato per più di quattro anni grazie a un contratto di affitto che prevedeva di prendersi cura dell’edificio, per evitare che cadesse a pezzi o venisse occupato illegalmente, e in cambio chiedeva all’affittuario un contributo pari a due grani di pepe.
Abbiamo capito che si può comperare anche solo una stanza o due di una casa, a seconda delle proprie disponibilità economiche, e sul resto continuare a pagare l’affitto, cosa che ha fatto Marco utilizzando lo shared ownership scheme; o che se abiti a Kensington, anche solo in un piccolo appartamento nel quale entra l’acqua tutte le volte che piove, puoi avere come vicino di casa Roman Abramovich che tre anni fa ha comprato l’ex residenza dell’ambasciatore russo per novanta milioni di sterline oppure il re dell’acciaio Lakshmi Mittal, l’uomo più ricco d’Inghilterra, che proprio a Kensington ha comprato casa anche per i suoi due figli, per un valore complessivo di oltre cinquecento milioni di sterline.
Abbiamo partecipato a distanza a una lezione del corso di italiano che tiene Roberta, che vive in una social street ante litteram, dove tra vicini c’è un rapporto stretto e solidale che culmina nel Big Lunch di giugno, in occasione del quale la strada, chiusa al traffico, diventa il palcoscenico per musica, spettacoli e un grande pranzo comunitario; abbiamo accompagnato Paolo mentre pedalava in bicicletta verso il suo laboratorio di rilegatore artistico, che ha aperto in un vecchio magazzino nel vibrante quartiere di Stoke Newington e che condivide con un tipografo, un tappezziere e altri artigiani; abbiamo ripercorso la storia dei traslochi di Maria Grazia, che dopo aver abitato fortuitamente per dieci anni in una bella casa popolare a 50 sterline a settimana, ha cambiato una ventina di case in cinque anni; e infine abbiamo visto come si può essere in uno dei quartieri più multietnici di Londra e continuare a frequentare quasi esclusivamente italiani, che spesso fanno base a Dalston nell’appartamento di Francesca.
Il sito internet www.doorothy.it raccoglie le storie di questi italiani, ognuno rappresentato dalla fotografia della sua porta di casa, scelta come rappresentativa dell’idea di abitare, come rivela il nome stesso del sito, che gioca proprio con la parola door e con il nome della protagonista del Mago di Oz, impegnata tutto il romanzo a cercare di tornare a casa.
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Di ogni persona è raccontata la storia abitativa, attraverso le parole raccolte con le interviste e le fotografie scattate direttamente da chi ha partecipato alla ricerca. Il risultato è una lettura dell’abitare che potrebbe essere definita “raso terra”, in cui ciascuno degli intervistati ha documentato, partendo dalla propria casa, un’esperienza di abitare a Londra.
Tutti insieme, questi racconti, diventano un’antologia di modelli di abitare, alcune tra le tante possibili microstorie che si potrebbero raccontare che niente hanno a che vedere con la “Storia” dell’abitare a Londra ma che forniscono molte informazioni particolari con le quali arricchire il quadro conoscitivo sul tema.
Difficile ad esempio sarebbe stato capire con strumenti di analisi quantitativa, i più accreditati tra gli studiosi di scienze sociali, il funzionamento dello squat in cui abita Silvia, le logiche collaborative che si instaurano tra chi ci vive, le esperienze di condivisione che vengono sperimentate, ma anche le modalità con le quali si forma un “equipaggio” o i principi di cura e responsabilità intorno ai quali si concretizza il recupero degli spazi che vengono occupati. Perché la chiesa sconsacrata dove adesso vive Silvia era in condizioni pessime quando lei e il resto dell’equipaggio sono entrati: pavimenti allagati, muri imbrattati, bagni rotti, vetri spaccati.
Ci hanno messo più di un mese a pulire tutto, sistemare il giardino, ridipingere le pareti, attrezzare una vera cucina e suddividere i grandi spazi inframmezzati di colonne di quel vecchio edificio in ambienti più piccoli dove ricavare le camere da letto; una l’hanno tenuta per gli ospiti e lì accolgono per brevi periodi homeless e persone sfrattate che bussano alla porta chiedendo aiuto. Vista la metratura abbondante, hanno anche una grande sala nel seminterrato dove organizzano concerti e nella hall a pianoterra hanno ricavato uno spazio dove gli attori e i ballerini fanno le prove.
Silvia infatti fa parte di un “collettivo creativo” di musicisti, gente di spettacolo, artisti che vengono da tutto il mondo e che, arrivati a Londra, hanno cercato una soluzione abitativa contro il caro affitti, per poter condividere con altri le loro passioni e potersi permettere di continuare a coltivarle. Si va dai 26 ai 53 anni, ma la maggior parte sono giovani, da soli o in coppia, nessuna famiglia con bambini.
C’è chi fa l’imbianchino e chi monta stand nelle fiere, chi è laureato in matematica e chi fa un master, chi fa il commesso e chi il giardiniere, chi fa le pulizie e chi dà lezioni di inglese. In generale, comunque, tutti guadagnano facendo lavori ai quali possono sempre dire di no, perché tutti hanno comunque un altro lavoro, spesso mal pagato o non pagato affatto, nel mondo dello spettacolo, che vogliono continuare a fare.
Silvia lavora due giorni e mezzo a settimana in un negozietto di formaggi e il resto del tempo studia drammaturgia e organizza laboratori teatrali per emarginati sociali.
Il suo stipendio part-time le è più che sufficiente per vivere, soprattutto perché per la casa non spende mai più dei 12 pound che ogni mese versa nella cassa comune. Il cibo lo compra scontato nel mercato dove lavora, mentre vestiti, libri e altri oggetti di arredamento li trova al free shop, una specie di negozio interno allo squat rifornito di tutto quello di cui i residenti della zona vogliono disfarsi e che i ragazzi dello squat sistemano e distribuiscono a chi ne ha bisogno.
A differenza di quello che si potrebbe immaginare parlando di occupazioni illegali, il gruppo di artisti che abita nella vecchia chiesa ha un sistema decisionale piuttosto articolato, fatto di meeting che chiunque dell’equipaggio può convocare mandando agli altri un sms con due giorni di preavviso, di votazioni per individuare quello che deve essere comprato collettivamente, di turni per le pulizie e di suddivisione dei compiti tra chi raccoglie i soldi per la cassa comune, chi si occupa della raccolta differenziata, chi sostituisce le lampadine rotte e chi aggiusta i rubinetti che perdono.
Guardando le fotografie della bellissima chiesa-squat dove qualunque turista sarebbe felice di poter soggiornare, non è semplice provare a definire cosa significa “alternativo” quando si parla di abitare e sembra emergere una netta frattura di significato tra chi è fuori dall’abitare alternativo e chi dentro.
In diverse espressioni raccolte con le interviste e visualizzate nella mappa delle parole più ricorrenti qui sotto, ritorna il tema dello sharing: si può condividere la casa con altri per abbassare i costi di affitto (o di mutuo nei numerosi casi in cui il proprietario subaffitta una stanza per pagare le rate), ma si può condividere con altri anche la proprietà stessa della casa, come nelle formule di shared ownership, che consentono di acquistare inizialmente solo una percentuale della proprietà della casa e pagare sul resto un affitto agevolato al proprietario.
A Londra, dove i prezzi delle case sono tra i più alti del mondo, viene poi percepito come alternativo, forse per la scarsità di offerta, l’housing sociale, promosso da politiche pubbliche e ancora rientrano nella definizione di alternativo le esperienze residuali e non ufficiali di squatting, che nel Regno Unito hanno una loro legittimazione quando riattivano spazi abbandonati e che in alcuni casi si sono evolute in forme più strutturate, incarnate dalla figura del property guardian: a Londra quello dei property guardian è diventato un mercato redditizio e hanno aperto diverse imprese che selezionano i guardiani (spesso key workers o studenti lavoratori che cercano soluzioni abitative economiche e uno stile di vita flessibile) che dovranno occuparsi per conto dei proprietari di locali commerciali o abitazioni vuote.
Un altro modello di alternative housing molto citato è quello dell’houseboat, percepito anch’esso come radicalmente alternativo in particolare in relazione a due aspetti: il primo è che consente di vivere spendendo poco in zone centrali dove i valori immobiliari dell’abitare tradizionale sono altissimi; il secondo aspetto è che, per affrontare meglio le diverse difficoltà tipiche della vita in barca, incentiva la creazione di comunità solide e durature, esperienza a Londra piuttosto inusuale da ritrovare in contesti abitativi tradizionali e ben raccontata da Giulia che insieme ai suoi vicini di casa barcaioli cena, festeggia il Natale e va a cercare legna per alimentare la stufa con cui riscaldare la houseboat.
Dagli esempi emerge come a fronte della spontaneità e temporaneità delle esperienze più rappresentative di abitare alternativo (squat, houseboat), ne stiano emergendo altre (property guardian eshared ownership scheme), inserite in un contesto più istituzionale, che cercano di imbrigliare l’informalità delle prime esperienze dentro modelli meno radicali nei quali riattivare i meccanismi di condivisione e community building tradizionalmente associati all’abitare alternativo.
Il fine ultimo di questi esperimenti istituzionali sembra essere quello di sviluppare forme di abitare affordable, con cui trattenere in città quelle fasce di popolazione mobile e giovane che alimentano l’attrattività e l’economia di Londra. Perché con le politiche per la casa si fa anche sviluppo economico, nonostante spesso ce ne si dimentichi.
[Continua]
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