Una delle pellicole italiane più celebrate dell’anno, un manifesto ideologico che fa sognare, ma sorvola sul dramma del regolamento Dublino e dei respingimenti in Europa
di Lorenzo Bagnoli
@Lorenzo_Bagnoli
17 ottobre 2014 – Un’intuizione geniale. Esaurita però in un’apologia onirica, imbellettata per affascinare il grande pubblico della Mostra del cinema di Venezia, dove quest’intuizione è approdata. Piacente come una sposa, vestita a puntino da sembrare vera. Peccato però che il matrimonio tra impegno civile e racconto cinematografico naufraghi, nonostante gli sforzi. E quell’idea così potente (anzi, squassante) che ti fa credere nel lungometraggio appena ne senti nominare il titolo, non si riveli altro che un geniale espediente narrativo di una storia non raccontata fino in fondo. Per fare cinema, probabilmente, serve di più di un’intuizione. Soprattutto per raccontare i protagonisti di questa splendida e tragica storia, che quando si dischiude con la sequenza iniziale dei preparativi dei finti testimoni sembra lasciar presagire un seguito spettacolare. Invece non accade granché.
Il film in questione è Io sto con la sposa, di Gabriele Del Grande (giornalista), Khaled Soliman Al Nassiry (poeta di origini palestinesi) e Antonio Augugliaro (regista), appena uscito nelle sale.
La storia di un viaggio in macchina dei tre autori per portare cinque profughi da Milano a Malmo, in Svezia, inscenando un matrimonio. Scopo: permettere ai sirani palestinesi di chiedere asilo in uno Stato dove sono certi che l’accoglienza sarà migliore che in Italia.
Prima di entrare nei dettagli del film, una premessa. L’operazione Io sto con la sposa è storica: la campagna di crowdfunding che ha raccolto 98.151 euro, record assoluto per un film. Ha 2.671 produttori che l’hanno sostenuto (chi ci avrebbe mai scommesso per un film che parla di immigrazione?), nel weekend di esordio a Milano ha già bruciato i concorrenti al botteghino, arrivando al quarto posto, con una media schermo di 2.359 euro. L’impresa dell’evento è già riuscita: se mai nell’immaginario collettivo rimarrà qualche traccia di questa strana migrazione verso Nord, sarà un fotogramma di questo film. Però – e qui sta il punto – non rimarrà traccia delle storie di questo film.
Fa quasi paura fare osservazioni sul progetto, ora che in tanti lo sostengono (giustamente). E, si precisa, non le si fa per “non stare con la sposa”. Ma solo perché questa storia ancora non coglie l’essenza delle storie dei circa 100 mila profughi che hanno attraversato l’Europa in questo ultimo anno, né sul piano delle vicende umane, né tantomeno del fenomeno nel suo complesso. E dispiace, visto il successo che sta riscuotendo e il rumore che continua a fare. Sorvola il dramma del regolamento Dublino e i respingimenti in Europa, vero motore della rabbia che poi innesca la voglia di disobbedire e fregare il sistema.
Il nemico, giurano tutti i protagonisti della storia, c’è, ma lo spettatore non lo vede mai. Le belle immagini cinematografiche, che ci sono, non compensano le lacune della narrazione. E la vicinanza di chi racconta alla storia non colma le mancanze di spiegazione, più giornalistiche. Non si sente mai una critica al sistema d’accoglienza che vada oltre “il cielo è di tutti allora perché la terra non deve esserlo altrettanto”. Un po’ poco.
Manca la fibra del cinema, l’azione e il racconto. È un film tutto pensiero: un importante manifesto ideologico (tanto da proseguire il ragionamento ad assiomi) che grida la necessità di prendere posizione a sostegno dei profughi, che inneggia a disobbedire alle assurde regole dell’Europa. In questa storia, però, quelli che dovrebbero essere i protagonisti, i profughi, paiono complementari al principio enunciato nello steso titolo: stare con la sposa, stare dalla parte dei profughi. E lo si vede in ogni fotogramma questa dichiarazione di intenti, così come nella dedica finale ai figli dei registi.
Abdallah, i coniugi Mona e Ahmed, il giovanissimo Manar e suo padre Alaa paiono migranti qualunque. Sono caratterizzati solo da ciò che il film vuole distruggere: l’essere nati in Siria e avere sangue palestinese. Paradossale per un film che vuole abbattere tutte le frontiere. Si raccontano a tratti, ma si limitano a raccontarsi in quanto profughi. A raccontare un orrore che Del Grande ha già egregiamente raccontato in Fortress Europe, il blog con cui ha dato a battesimo una formula che ormai è entrata a far parte del linguaggio comune. Invece che emergere nella loro completezza, i personaggi restano bidimensionali. La sposa Tasneem su tutti. Nonostante la sua presenza scenica (è di una bellezza abbacinante in quest’abito bianco così contrastante con il nero della maggioranza delle scene), nonostante la sua scelta di essere parte di questa storia (poteva benissimo essere altrove lei che ha un passaporto tedesco), appare comunque un juke-box di frasi fatte. Estranea dalla dimensione del vero viaggio, quello dei profughi. Allora diventa poco più che una parte del coro che si rattrista ad ogni aneddoto del viaggio e che gioisce tra canti e balli e (inaspettatamente) alcol.
Il nemico pare fuori dal film, non entra mai in scena. Eppure ci sarebbe: Alaa e Manar ne sanno qualcosa. Però si sceglie di non affrontarlo, di lasciare la parola solo ed esclusivamente alla rabbia in soggettiva dei migranti o alla gioia collettiva del gruppo. Tutto ovviamente filtrato dai veri eroi, gli stessi registi che hanno deciso di intraprendere questo viaggio.
I registi flirtano per 90 minuti di film con la loro idea del matrimonio e sono narcisisticamente assorti a rivedere nelle storie raccontate dai profughi i loro sogni e le loro aspirazioni. Visto dalle inquadrature scelte nel trailer, dalla potenza di personaggi come Manar (che invece si rivela una macchietta o un bambino cresciuto troppo in fretta), dalla sterminata conoscenza dell’argomento degli autori, sembrava poter regalare molto di più. Il successo al botteghino è meritato per ciò che significa il film e per il modo in cui i registi hanno saputo sensibilizzare il grande pubblico. Non per i minuti passati al cinema.
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