In Canada Eni è tra i grandi colossi che investono nel petrolio più sporco al mondo, con l’obbiettivo di inondare l’Europa e gli Usa di oro nero. Sono stato a Fort McMurray, negli estremi territori del nord e nei boschi delle riserve indiane al confine con il Saskatchewan per capire come mai abbiamo veramente bisogno di cambiare il modo in cui pensiamo e produciamo energia.
Testo e foto di Samuele Bariani
22 ottobre 2014 – Da Fort McMurray sono tornato come si torna dai posti che si rinnegano: con la nausea.
Un tempo zona ancestrale del mondo, qui si rifornivano gli esploratori inglesi della Hudson Bay, la compagnia commerciale che scambiava pelli con i cacciatori indigeni. Oggi, l’antica rotta del fiume Athabasca, è la strada degli oleodotti che pompano petrolio fino al golfo del Messico, in Texas.
Scordatevi l’immagine di un paese ‘green’: il Canada del XXI secolo è il terzo produttore mondiale di greggio dopo Arabia Saudita e Venezuela.
Sono già 110mila le persone arrivate a Fort McMurray per cercare fortuna nelle Oil Sands, il più grande progetto industriale del mondo: 176mila chilometri quadrati di sabbie bituminose, un’area vasta come il Regno Unito, dove viene estratto l’ultimo surrogato di petrolio disponibile che si trova intrappolato nel terreno in una miscela tossica composta di sabbia, acqua, zolfo e argilla. Ogni anno, per separarlo da tutti questi materiali, si usano 370 milioni di metri cubi d’acqua del fiume Athabasca che ‘lavano’ le sabbie con getti di vapore caldo. Gli scarti pieni di additivi chimici,
finiscono sversati nelle infernali tailing ponds, laghi artificiali di liquame tossico a cielo aperto. Secondo una ricerca del Pembina Istitute, ogni giorno 11.000 metri cubi di queste acque reflue filtrano nel terreno e nelle falde acquifere adiacenti.
Come ogni grande slancio industriale dell’umanità occidentale, le sabbie bituminose vennero accolte da applausi e promesse di benessere. Nel 1967, all’inaugurazione del primo impianto della Great Canadian Oil Sands che avrebbe prodotto 30000 barili al giorno, il governatore Ernest Manning parlò di una data da segnare in rosso sul calendario di tutto il nord America. Un business, che fino al 2003, è stato legato a due compagnie canadesi, la Suncor e la Syncrude, poi il progressivo calo delle riserve tradizionali ha dato il via a un assedio senza regole da parte di 25 multinazionali
provenienti da tutto il mondo. Nel 2013 la produzione è salita a 1,9 milioni di barili giornalieri che secondo le previsioni schizzeranno a 3,8 milioni entro il 2022.
Il vecchio discorso di Manning si ascolta negli archivi dell’Oil Sands Discovery Centre, il cartello di benvenuto che si incontra percorrendo la Highway 63. Foto giganti, animazioni in 3D e simulazioni che mettono in scena un ‘racconto dell’assurdo’ drammaticamente lontano dalla realtà.
Il governo ha già liquidato più di 2000 scienziati negli ultimi 5 anni e centinaia di programmi di ricerca sono stati privati dei fondi necessari. Programmi sul monitoraggio delle emissioni di CO2, sulle perdite di petrolio nell’ambiente, sulla qualità dell’acqua e sul cambiamento climatico sono stati tagliati o messi a tacere pur di sfruttare una riserva di 177 miliardi di barili.
Succede, in Canada, ciò che è accaduto negli Stati Uniti con l’oro: la corsa al petrolio, con produttori, avventurieri e vite negate in luoghi remoti ai margini della civiltà. “L’energia prodotta per renderci la vita più piacevole ha un impatto e un costo ambientale – dice un promemoria all’uscita del museo – non si può usare l’energia senza pensare che non abbia conseguenze per tutti”. Decisi, allora, che il motivo per raccontare quel che resta di anni di investimenti, ingiustizie e morti era dar voce a chi per davvero in quelle sabbie mobili ci stava sprofondando.
Dieci giorni, in una zona subartica del mondo, possono durare un secolo. Sulla Franklin Avenue le uniche luci sono quelle dei mezzi pesanti che passano tra casinò, Strip club e motel per andare verso i giacimenti. L’espressione innaturale di luoghi costruiti nel bel mezzo della foresta boreale,
mi faceva riflettere se quel mosaico di culture avesse un senso, oltre il fatto che obbligava migliaia di persone a inseguire il denaro come l’esclusivo accesso alla felicità. I tassisti sono quasi tutti eritrei, gli autisti dei pullman arabi e nei negozi i commessi parlano spagnolo. Filippini, messicani e
caraibici, senza qualifiche, si ritrovano a fare da camerieri per le caffetterie o i ristoranti con paghe da 20 dollari all’ora, quasi il doppio della media nazionale, ma il minimo se non si vuole soccombere nella terra del petrolio, dove i prezzi delle case superano il milione di dollari. Per i meno fortunati l’alternativa sono gli accampamenti di roulotte e camper simili a baraccopoli. Vere e proprie ‘favelas subartiche’ a condizioni igieniche orribili: per un rettangolo di polvere di tre metri quadrati si paga un affitto di 700 dollari mensili e il bagno, a volte, si condivide con 11 persone.
Dopo tre ore passate a camminare nel centro di Fort McMurray, ha cominciato a nevicare. Nessun teatro, cinema o luogo di ritrovo. In questa ‘boomtown’ non si viene per divertimento ma per arricchirsi il più possibile. Poi c’è l’alcol per dimenticare cosa implica lavorare in queste condizioni.
“Le miniere sono aperte 24 ore su 24, sette giorni a settimana”, mi dice Simeon in un pub. “Per avere quattro giorni di riposo dobbiamo lavorare 10 giorni di fila con turni da 12 ore l’uno. È dura, ma finché gli americani avranno bisogno di questo petrolio noi rimarremo qui”.
Chi non ha un impiego fisso rischia di sprofondare nel baratro della povertà. Il centro di accoglienza dell’Esercito della Salvezza distribuisce pasti caldi a centinaia di persone che fanno la fila ogni giorno: “Sono arrivato qui per lavorare in un’impresa edile e mi sono ritrovato a spacciare droga” mi racconta Chris che arriva dall’Ontario. “Mi vergogno, mia figlia non sa niente – mani in tasca e occhi lucidi di rimorso – ma era l’unico modo per continuare a pagarle gli studi”.
Al grigiore generale si contrappone il magnifico MacDonald Island Park, un centro sportivo sulla confluenza dei fiumi Athabasca e Clearwater: piscine, biblioteche, due arene per l’hockey e un campo da football in costruzione. Ogni volta che bisogna coprire qualche incidente, questo posto,
rigorosamente marchiato Suncor, Shell e Total, serve alle società per mostrare le loro buone azioni verso la comunità.
Theresa Wells è la responsabile della comunicazione e una delle rare persone ottimiste sul futuro di Fort McMurray: “Io qui cresco felicemente una figlia di 14 anni che segue corsi teatrali a scuola ed è rispettosa dell’ambiente. Sono orgogliosa della mia città e non la cambierei per nessun altro posto al mondo”, dice tranquilla mentre mi mostra il suo blog McMurray Musings, molto apprezzato nella zona. “Tv e giornali ripetono le solite bugie e i giornalisti stranieri vengono qui per ridursi a scrivere ciò che avevano in mente, la notizia è interessante solo se è negativa”, rileva guardando la gente entrare nel centro. “Così ho pensato di far conoscere la vera immagine di Fort McMurray, un luogo in cui ci sono persone splendide, oneste e con un profondo senso di appartenenza”.
Avevo deciso di non replicare perché rispettavo il suo coraggio d’istinto, il più radicato nella mente di chi cerca di difendere la propria scelta di vita, giusta o sbagliata che sia. Io però, al contrario, in quell’immagine di integrazione e felicità non mi ci ritrovavo.
Fort McMurray continuava a rimanere ai miei occhi uno degl’ultimi avamposti della globalizzazione tenuto in piedi dal puzzo del denaro, capace di far cambiare forma anche al razzismo. A differenza che in altri paesi, da loro c’è posto per centinaia di confessioni cristiane, per il simbolo della mezzaluna di una moschea o per il tempio indù più a nord del pianeta, ma non fate troppe domande sui nativi americani, quegli ‘ubriaconi’ mantenuti con le tasse dei bianchi. È la storia comune di ogni terra conquistata da qualche invasore: c’è bisogno di ogni mezzo per delegittimare chi abita quei luoghi da sempre. In città i Dene e i Chipewyan sono spariti o sono stati costretti ad accettare la pressione del materialismo che nega valore a ciò che non è un profitto. Un effetto domino che ha creato un’umanità derelitta, piena di vittime silenziose.
Una sera, grazie a un aggancio, incontro un ingegnere ambientale della Suncor, mi vuole parlare a patto che non riporto il suo nome perché “la società fa firmare un documento in cui vieta di raccontare quanto accade al suo interno, pena il licenziamento”. Partecipa a un progetto di bonifica delle tailings ponds, i bacini di decantazione criticati dagli ambientalisti: “Fin dalla mia infanzia ho avuto a cuore la natura e arrivando qui pensavo di essere nel posto giusto per poter fare la differenza. Invece è tutto un sistema fondato sull’inganno”, mi dice con una voce da confessionale. “Nelle tailings ponds ci sono vari strati, il mio compito è di riciclare il materiale più solido, separandolo dall’acqua tossica e dall’argilla. Per seccare le molecole di questo terriccio inutilizzabile aggiungiamo uno speciale polimero. L’assurdità – dice – è che in sostanza introduciamo plastica liquida per creare terre bonificate”.
All’interno del suo team nessuno conosce come reagirà il polimero nel tempo, sotto l’azione di agenti esterni come pioggia, pressione o caldo.
Gli mostro i filmati in cui la sua azienda proclama di aver bonificato con successo vecchie zone della miniera. “Tutta propaganda, usano photoshop. Io so che le piante non crescono. Non riusciremo mai a recuperare quelle terre allo stato originario”. Sapeva cosa succedeva anche agli uccelli migratori che si posano sul liquame delle tailing ponds.
“Abbiamo un squadra di uomini ingaggiata con il compito di uccidere quotidianamente quelli che rimangono intrappolati”. Vengono fatti sparire per evitare possibili sanzioni, come quella da 3 milioni di dollari dell’Aprile 2008, inflitta alla Syncrude per la morte di 1600 volatili.
“Ci sono migliaia di documenti che potremmo inviare al ministero dell’ambiente ma siamo pagati dalle compagnie petrolifere e dobbiamo coprirgli il culo. Mi sento parte di una grande soluzione di ripiego”. Un mese dopo, mentre scrivevo queste righe, all’interno della Suncor, una donna è stata
uccisa da un attacco di un orso. Un’atrocità incassata in silenzio da parte di chi fa a pugni con madre natura. Vengo a sapere che da qualche mese la regione di Wood Bufalo si sta preparando alle elezioni federali, dopo le misteriose dimissioni del conservatore Brian Jean in Gennaio, ufficialmente
giustificate per stare più vicino alla famiglia.
Conosco Lori McDaniel, che si è candidata per l’NDP (New Democratic Party), un partito di ispirazione socialdemocratica, perché dice che “i conservatori sono ormai fuori controllo”. È grottesco parlare di elezioni in una provincia in cui non esiste una
linea di demarcazione tra le compagnie petrolifere e i funzionari governativi. “I conservatori controllano l’Alberta da più di 40 anni e non hanno mai dato indietro un centesimo per migliorare la qualità della vita dei residenti. Hanno fallito. Vai a vederti l’ospedale – sbotta con una voce raschiata dal fumo – un vecchio edificio di quattro piani che non può far fronte alle emergenze e sei dottori di zona per più di centomila abitanti. Moltissimi vivono sotto la soglia di povertà nella provincia più ricca del Canada.” Lori è convinta di poter fermare la dittatura petrolifera che ha travolto i residenti; la cosa curiosa è che anche lei è una dipendente della Suncor, facendomi apparire la situazione un perfetto circolo vizioso senza via d’uscita.
Mentre viaggiamo insieme verso le zone delle estrazioni, mi mostra una foto con il suo caterpillar 797B che guida nelle miniere. “È un bestione alto più di 8 metri”, dice nel momento in cui nel cielo iniziavano a vedersi i ghirigori di fumo rilasciati degli impianti.
Uno dei progetti più conosciuti è l’Horizon Oil Sands, un’area della Canadian Natural Resources Ltd (CNRL) che produce 250mila barili al giorno. Un giro di affari che ha attirato l’interesse dell’Italia e dell’ENI, che tramite Saipem, dal 2010 gestisce un commessa onshore di circa 1 miliardo di dollari. Ci passiamo non molto distante: le strade d’accesso sono sorvegliate da posti di blocco poco amichevoli, se non si è dipendenti sono zone off-limits. Nelle settimane precedenti avevo cercato di ottenere un’autorizzazione d’ingresso direttamente dagli uffici della Saipem di San Donato, ma il mio intento di scrivere un reportage non era piaciuto alla portavoce del ‘cane a sei zampe’ che, dopo uno scambio di email e telefonate, sparì nel nulla. Un silenzio che non piaceva neppure a me e che mi confermava di non essere il benvenuto.
Sull’ultimo lembo di terra asfaltato del mondo, mentre ci lasciavamo alle spalle le industrie, i segnali per la First Nations di Fort McKay spuntavano tra gl’alberi. Per settimane mi ero preparato a visitare una riserva indiana: avevo studiato mappe, libri di storia, articoli e documentari. Volevo capire come stavano resistendo alla petrocrazia che sottraeva le loro terre, ma presto mi resi conto di non conoscere le regole del gioco. La mattina del giorno prima, per email, la responsabile delle relazioni esterne, mi aveva invitato a una cena per conoscere alcuni consiglieri. L’attesa era finita e con quella anche la mia visione sugli ‘indiani’ da romantico europeo.
Fort McKay è circondata da Suncor, Total, Syncrude e CNRL in ogni direzione nel raggio di 2 km. Di sera dopo il tramonto, al di là delle colline, spuntano le luci delle fiamme delle raffinerie. Dopo le iniziali proteste negli anni 60, il consiglio direttivo ha iniziato una succulenta operazione di
collaborazione con le aziende petrolifere. Nel 1986 venne eletto leader della comunità Jim Boucher, che contemporaneamente fondò la Fort McKay Group of Companies, una cordata di imprese gestita direttamente da aborigeni con l’obbiettivo di fornire infrastrutture, oleodotti e tutti i servizi di
collegamento alle industrie. L’accordo fu un successo: ad oggi fatturano 100 milioni di dollari netti all’anno, forse troppi per una riserva indiana che dice di voler lottare contro gli abusi industriali. Con il CEO George Arcand visito il parco industriale, una infilata di uffici con all’esterno una serie di
autovetture, camion e mezzi pesanti. Non molto lontano ci sono due Work Camp di loro proprietà in cui alloggiano più di 800 lavoratori ma George, appoggiandomi una mano sulla spalla, è sicuro che “presto ci saranno nuovi ampliamenti”.
Mentre saltelliamo sui sedili della sua Jeep, imbocchiamo una strada secondaria della riserva senza asfalto in cui iniziano a vedersi una decina di case milionarie, rifinite in legno e pietra, con luce elettrica e acqua corrente. “Le persone che vengono a visitarci dicono che non ha neanche l’aspetto di una riserva indiana”, borbotta soffocando una risata. Oltre una scuola materna, un arena per hockey e una struttura per gli anziani, a breve sorgerà un anfiteatro di 1800 posti per una comunità che non supera i 700 abitanti.
“È inutile chiudere gl’occhi, bisogna vedere il mondo anche dal punto di vista del progresso”, mi dice riprendendo la strada per l’edificio principale, dove ha sede il consiglio d’amministrazione. Al primo piano sulla destra, dopo un lungo corridoio, entriamo in una lussuosa sala riunioni, con poltrone in pelle nera e un grande dipinto alla parete che raffigurava un aborigeno in una canoa. George rimane un istante in silenzio davanti a una magnifica serie di finestre che davano sull’insenatura ghiacciata del fiume Athabasca, poi riattacca a parlare: “È arrivato un momento in cui dovevamo scegliere: o farci schiacciare dalle espansioni industriali o parteciparvi per dare benessere anche ai nostri membri. Siamo stati costretti a prendere questa posizione dalla storia e dalla necessità di petrolio nei mercati internazionali”.
Visto da vicino, c’è una profonda contraddizione fra il suo linguaggio e i lineamenti del suo viso. Mi spiega che le industrie sono dei ‘buoni vicini’ con cui fare affari nel rispetto reciproco, omettendo che 40 anni prima si erano presentate con le ruspe per radere al suolo le loro abitazioni. “Con le nostre attività diamo lavoro a 4000 persone provenienti da tutto il Canada – dice con le mani al mento – e non abbiamo disoccupazione tra i nostri membri. Siamo un esempio da seguire per le altre First Nations”. “Non combattete più le espansioni nei vostri territori?”, gli chiedo quasi rassegnato. “Combattiamo in modo diverso, con la diplomazia”, risponde lasciando in sospeso un ingombrante silenzio. Era chiaro che dietro quel patto col diavolo c’era qualcosa che non dovevo sapere.
Qualche giorno dopo sono ritornato clandestinamente a Fort McKay. Nessuna visita ufficiale, nessuno ad attendermi. Dietro lo sfoggio di ricchezza del gruppo direttivo, ci sono intere famiglie che vivono in alloggi fatiscenti che non possono più rispettare il loro tradizionale stile di vita basato sulla caccia e la pesca per colpa dell’inquinamento. “Certi giorni ci avvisano di non uscire dalle case per le nubi tossiche che arrivano dagli impianti qui intorno – mi dice Annette – siamo costretti a bere acqua in bottiglia perché la nostra acqua è tossica e se usiamo la doccia per più di 5 minuti la nostra pelle diventa cosi”, mi dice mostrandomi delle macchie multicolori sul tutto il corpo. “Abbiamo tradito i nostri antenati per i soldi”, dice sospirando.
Gli chiedo il motivo per cui non ha una casa nuova. “Perché ho parlato all’esterno, riportando i problemi in cui viviamo. Siamo in ostaggio del governo di Jim Boucher e dei suoi consiglieri da più di 20 anni. Sono uomini molto potenti e scelti dalle industrie, persino le ultime elezioni nella nostra comunità sono state truccate. Chi si oppone viene messo sulla ‘lista nera’: si rischia di perdere il lavoro o la casa all’interno della riserva. Io sono disoccupata, mio figlio è un disabile che ha bisogno di cure, ma non gliene importa nulla”.
Lo sviluppo di nuovi progetti per l’estrazione del petrolio è un dogma, un ordine inappellabile: su 49 richieste di costruzione all’interno dei territori della comunità, il gruppo di Fort McKay non ne ha respinta nemmeno una. Il semplice dubitare su questioni di sicurezza ambientale o sulle
conseguenze per la salute è diventato impossibile. Marlene Orr e suo marito Mike sono stati ostracizzati da quando hanno denunciato un disastro ecologico.
“Tutto è cominciato nel 2009 – mi racconta Marlene – quando mio marito Mike durante una battuta di caccia, a diversi chilometri da qui, scoprì una tailings pond della CNRL, nei pressi del fiume Ells. La cosa anomala era la forma di questo bacino di decantazione. Di solito sono chiusi su tutti e quattro i lati, ma questo ne aveva soltanto tre. L’ultimo lato era completamente aperto verso il bosco e l’acqua dolce scorreva immersa nelle sostanze chimiche. Gli animali entravano indisturbati in quella poltiglia. Quando ho visto il video che Mike aveva fatto non riuscii a crederci, scoppiai in lacrime”.
Nelle successive ricerche scoprirono che le audizioni pubbliche per quel progetto erano state tenute a Fort McKay nel 2003 e nessun documento, all’epoca, conteneva il disegno di quella tailings pond. Il progetto fu poi approvato nel 2004 dai rappresentanti provinciali e federali. La cosa strana
è che i lavori di costruzione furono commissionati a una compagnia aborigena, la ‘The Bouchier Group’ con a capo uno degli attuali consiglieri di Fort McKay, David Bouchier, che quindi era a conoscenza dell’esistenza della tailing pond realizzata, oltretutto, in un luogo non lontano da dove
l’intera comunità prendeva l’acqua corrente.
Da anni i bambini nascono asmatici, gli adulti muoiono per crisi respiratorie o cancro ma nessuno dei capi ha avviato uno studio serio sulla salute. Il dottor John O’Connor è stato l’unico medico dell’Alberta che ha denunciato un’epidemia di cancro tra i nativi nelle zone delle Oil Sands e per tutta
risposta l’agenzia sanitaria nazionale del Canada lo ha sospeso dal suo incarico per aver sollevato un ‘allarme ingiustificato’.
“Quando abbiamo riferito questi fatti alla CBC sono iniziati i nostri problemi, mio marito è stato rimosso dalla carica di consigliere, i miei figli sono stati picchiati e qualcuno ci ha ucciso il cane”, mi dice Marlene disperata. “Non c’è un lavoro qui che non sia collegato alle sabbie bituminose, molte
persone sono infelici ma hanno paura di parlare perché non hanno nessun altro mezzo per sopravvivere. Nutriamo nel nostro cuore due odi: uno per le compagnie che ci stanno uccidendo, l’altro per i nostri responsabili che assistono al massacro senza muovere un dito. La nostra vita non
vale niente”.
Casi come quello di Fort McKay stanno diventando sempre più comuni. Una dopo l’altra, le varie comunità di nativi hanno finito per fare accordi con le compagnie petrolifere, tutti a inseguire una falsa idea di modernità e a mettere le mani sui soldi del petrolio, un atteggiamento che sta
decretando il disastro delle riserve indiane. A Fort McKay è scomparsa una cultura millenale in poco
meno di una generazione, la gente celebra riti di cui non conosce più il significato e moltissimi giovani sanno parlare solo l’inglese. In attesa di sparire sono solo diventati più ricchi. L’ultima fermata del mio viaggio è Lac La Biche, 400 Km più a sud, dove sconfinati spazi di foresta si
alternano a praterie e campi coltivati. Seguo lo stesso tragitto della storica ferrovia che trasportava il grano verso i mercati di Calgary ma che ora è completamente occupata da lunghi treni merci carichi di zolfo e altre sostanze tossiche provenienti dalle miniere. Le case e le scuole elementari
sono ad appena 100 metri dalle rotaie.
Nel giacimento di Cold Lake, poco più distante, si estrae petrolio usando una nuova tecnica chiamata SAGD (Steam-assisted gravity drainage): si fanno due trivellazioni nel terreno, una quasi in superficie e una alla base, e si immette vapore nel primo. Il vapore fonde il bitume intrappolato
nella sabbia facendolo sciogliere verso il basso, dove viene intercettato dalla seconda trivellazione che lo pompa in superficie. Un sistema più discreto rispetto all’impatto visivo degli scavi ma non meno nocivo: nel 2013 vicino nel sito ‘Primrose’ della CNRL si è verificata una fuoriuscita
incontrollata di petrolio che è emerso in superfice formando interi laghi nelle foreste, uccidendo castori, caribù e altre migliaia di animali.
A Lac La Biche ho un appuntamento con Crystal Lameman, una giovane mamma Cree, che sta lottando per fermare l’ennesima violazione dei diritti indigeni da parte del governo di Ottawa. L’84% dei loro territori tradizionali è stato affittato alle compagnie petrolifere senza il loro consenso,
firmando oltre 19000 permessi in poco meno di 30 anni. Assediati da inquinamento idrico, disboscamenti e diminuzione della fauna tradizionale, queste persone rischiano di dover abbandonare le terre dei loro antenati. Nella loro riserva un’intera riva del lago Beaver si è totalmente prosciugata per oltre 200 metri in circa 25 anni a causa dell’innalzamento delle temperature.
La storia che mi racconta Crystal scorre parallela alle conseguenze delle sabbie bituminose ed è una di quelle vicende spaventose che l’occidente ha rimosso dall’immaginario collettivo. “Fin da quando sono arrivati gli europei nel tardo 700’ abbiamo iniziato una lotta per non essere
eliminati. Ci hanno massacrati con ogni mezzo – dice mentre mi indica le tombe dei suoi capostipiti all’interno della riserva – i Cree e le altre tribù erano più di 2 milioni, oggi sono meno di 10mila”. La cosa più difficile da accettare di questo genocidio, dice, è la violenza dei crimini commessi.
Due secoli fa hanno iniziato a distribuire coperte intrise di virus del vaiolo, poi sono passati agli abusi sessuali sulle donne aborigene, vittime spesso dell’agente indiano, un dittatore messo dal governo in ogni riserva che aveva il compito di far rispettare la legge. Poi vietarono l’esercizio dei Potlaches, le cerimonie sacre della loro cultura, per forzare la ‘civilizzazione’ dei nativi e nel 1874 incominciarono ad aprire le scuole residenziali, sottraendo con la forza i figli dalle proprie famiglie. Veri e propri campi di concentramento minorili, gestiti dalla chiesa cattolica e protestante, dove
morirono più di 100mila bambini. Chi non si convertiva al cristianesimo o si ostinava a parlare la
propria lingua subiva violenze sessuali, sterilizzazioni di massa o punizioni corporali.
“Ai bambini venivano inseriti aghi nel pene, nelle orecchie o sulle guance – mi racconta Crystal – chi disubbidiva a un ordine veniva tenuto sospeso sopra delle tombe aperte e minacciato di essere sepolto vivo, a qualcun altro veniva dato l’obbligo di mangiare il cibo rigurgitato dagli insegnanti”.
L’ultima scuola residenziale ha cessato di funzionare solamente nel 1996 e nel 2005 il governo canadese ha dovuto pagare 1,9 miliardi di dollari a beneficio di decine di migliaia di ex studenti sopravvissuti alle torture.
Assorta in un’altra dimensione, Crystal sentiva la veemenza di dare una mano, di provare in qualche modo a lottare perché tutto questo non finisse semplicemente nel silenzio. Per queste popolazioni le Oil Sands rappresentano l’ultimo attacco di un paese che non ha mai smesso di essere una potenza coloniale, puntando sull’assimilazione dei nativi piuttosto che all’integrazione. Le riserve indiane sono diventate isole separate dagli impianti petroliferi con sbarre, filo spinato e guardiani. Una generazione di carcerati, colpevoli di essere nati lì dentro.
Il padre di Crystal, un uomo basso e sottile, è un ex-studente sopravvissuto alle scuole residenziali. “Noi difendiamo la terra non per possederla, ma per accudirla. Siamo i babysitter della natura”, midice intento a bruciare incenso. Per un europeo come me, abituato alle idee di possesso e
dell’avere, non era difficile immaginarsi come fosse stato facile per i colonizzatori assoggettare questa gente. I milionari delle Oil Sands stanno semplicemente portando avanti questa strategia. Una volta si bramavano le loro terre, poi le miniere d’oro e oggi i giacimenti di petrolio. Se la lotta
non funziona esiste il compromesso: i colonizzatori usavano l’alcool e il tabacco, mentre le compagnie petrolifere fanno accordi milionari con i leaders delle comunità. Quelli che muoiono, che oramai possono solo lavorare per le industrie, lo fanno per portare a casa un salario dignitoso.
C’è chi considera storie come queste troppo lontane dalla propria realtà, ma quando si parla di petrolio non si è mai lontani abbastanza. Il Canada è diventato l’unico paese che si è ritirato dal protocollo di Kyoto e pur promuovere le sabbie bituminose, nel biennio 2013-2014, ha stanziato 22 milioni di dollari in lobby per cercare di scoraggiare l’Unione Europea a promulgare la direttiva sulla qualità dei carburanti che mira all’utilizzo di combustibili puliti. L’Italia, indietro anni luce nell’utilizzo delle energie rinnovabili, è coinvolta con Eni negli affari delle sabbie bituminose e presto rischierà di trovarsi questo petrolio sporco nei suoi mercati.
Se Crystal Lameman e la comunità di Beaver Lake riusciranno a trovare i fondi necessari per avviare una battaglia legale contro il governo federale e i colossi del petrolio, il capitalismo, che ha trasformato milioni di persone in consumatori felici, dovrà per l’ennesima volta fare i conti con le
sue vittime. Ma fino a quando il Canada appoggerà l’industria petrolifera, in molti preferiranno rimanere con la testa sotto la sabbia.
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