Suad, nostalgia irachena

La cultura, la guerra e il destino politico dell’Iraq visto da quattro artisti iracheni in Italia. Nostalgia e dolore, ma anche speranza. Nel nome dell’arte, della pace e del vero Islam

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/Sara.jpeg[/author_image] [author_info]di Sara Lucaroni, @LucaroniS. Nata ad Arezzo nel 1980, giornalista professionista, si è laureata con una tesi sulla metafisica cartesiana. Si occupa di sociale, lavoro, politica, storie di sport. Ha collaborato con Italia7, TV2000 e Globalist. È coautrice di un romanzo sulla disabilità e autrice di due documentari: sull’immigrazione, “Chi siamo noi” e sulla Resistenza, “Diari di Guerra”.[/author_info] [/author]

25 ottobre 2014 – L’ultimo colpo al cuore, il più duro, è l’avvento degli integralisti di al Baghdadi. “Uno dei miei cognati è stato ucciso, due mesi fa. Lo hanno decapitato e gli hanno cucito sul corpo la testa di un cane”. Alì al Jabiri non si spiega l’affanno crudele di “uccidere, tagliare, uccidere, tagliare e cucire due volte”, e lo racconta ricordando tre dei suoi fratelli, morti mentre combattevano nella Baghdad invasa dalle truppe americane, nel 2003. È stato uno dei primi studenti d’arte iracheni in Italia, arrivato ventenne nel 1970 per seguire i corsi di pittura, scultura, decorazione e scenografia all’Accademia di Roma. Dopo di lui, specie negli anni ‘80, molti altri sono partiti per l’Italia, ma anche per Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Per studiare, lavorare, per esprimersi fuori dalla rete del regime. Qualcuno anche per sfuggire all’arruolamento per la guerra con l’Iran. È andata che una vivace fetta del talento e dell’intellighenzia irachena ha scelto di non tornare, complici prima le grandi gallerie d’arte, poi un matrimonio misto. Poi la guerra. E l’accoglienza in Paesi, come l’Italia di allora, più maturi e moderni di quelli attuali.

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Dall’avvento del partito Bhaat e di Saddam Hussein, alla Rivoluzione iraniana che ha cambiato per sempre il volto dell’area e del paese, dalla Prima Guerra del Golfo all’intervento americano agli inizi del 2000 -passando per gli esperimenti di una democrazia sempre troppo fragile per riuscire a esprimere la multiformità etnico-religiosa del proprio popolo e salvaguardare le sue ricchezze economiche- l’Iraq ha un’identità sepolta di cui oggi forse proprio gli artisti sono gli ultimi custodi. Lo sono grazie a quel filtro speciale sul mondo e i suoi accadimenti che è l’arte. Sono parte viva di quella schiera moderata e troppo tacita che adesso invoca più di tutti una soluzione pacifica per arginare l’ultima ondata di violenza e per togliere la parola Islam dalla bocca dei “mercenari” del Califfato.

Un sentimento comune. Secondo alcuni studiosi la parola portoghese “saudade” deriva dall’arabo: suad, saudà, sauidà, “sangue pesto e nero dentro il cuore”. È lo struggimento per la presenza di un’assenza. Il senso di appartenenza, un vissuto viscerale e fluttuante, dolce ma doloroso perché perennemente incompiuto. Lateef Etawi lo nasconde negli occhi neri delle donne che dipinge, un po’ Maria, un po’ madri ancestrali. Aziz Karim lo sublima nel “realismo magico” delle sue pitture, lo stesso mondo di Garcìa Màrquez. Basil Alali nei mosaici e nell’amore per la poesia araba, tanto da sapere a memoria più di mille versi. Il “percettivista” Alì la traduce in sculture e dipinti di soggetti-archetipo, sguardi del mondo dall’alto, ognuno il suo.

Vive e lavora in provincia di Siena il primo, a Roma gli altri tre. Per loro, come per molti intellettuali, il motivo della recrudescenza di integralismo e fanatismi e dunque del successo mediatico del Califfato, è direttamente proporzionale ai timori di molte potenze dell’area per la presunta “rivoluzione moderna”. La lotta è contro la minaccia di una crisi dei valori, “democrazia” e laicità intesa come decadenza di costumi ed idee di cui il mondo occidentale è ritenuto portatore, e riflessi nelle difficoltà della sua stessa economia. La deriva è una spaccatura nello stesso mondo musulmano, il tentativo di un’ anacronistica guerra tra culture. In quattro, una sola voce: “Siamo sempre stati un mosaico prezioso di umanità, culture, religioni. I paesi occidentali devono aiutarci ma cambiando strategia, adottando il dialogo. E i nostri rappresentanti devono essere capaci dell’autonomia, di coinvolgendoci tutti, di fare solo l’interesse del popolo”. Intanto l’Iraq è quello nei racconti dei parenti su Skype, degli attentati e delle esplosioni del giorno nel quartiere, dei pezzi dei cadaveri, dei nipoti in congedo per due giorni, dei sequestri di giovani e bambini in cambio di un riscatto. Di un governo che tentenna sempre. Poco di quello che accade davvero passa sui media occidentali e su Al Jazeera, dicono. In più oggi la comunità irachena in Italia è molto piccola e poco coesa. E’solo tramite qualche iniziativa dell’Ambasciata e il gruppo su Facebook dell’associazione “Amicizia Iraq e Italia” che si tenta di tenere unito quel che rimane del gruppo e della vivacità culturale del passato. Semmai in questo periodo c’è da commentare di nuovo la guerra, e allora arriva la telefonata di qualche giornalista.

Il ponte della cultura e un decennio d’oro. Negli anni ’70 dello sviluppo economico e sociale, favorito dalla nazionalizzazione dell’economia petrolifera, era prestigioso -non solo per gli artisti -perfezionarsi in Italia e in Europa, verso la quale gli studenti avevano anche diritto, in certo periodo, anche a due viaggi l’anno pagati dal ministero della cultura. I nomi dei giovani Aziz, Lateef, Alì, insieme a quelli di Fuad Aziz e Fadhil Ukrufi, hanno brillato per diverse edizioni alla Biennale di Venezia, quella di Baghdad, e in molte gallerie nel mondo. Una vivace rete di intellettuali, di contatti e progetti promuoveva lo scambio culturale attraverso festival e mostre. Una commistione tra linguaggi artistici: i modelli figurativi arabi classici, come l’uso decorativo della calligrafia, con la sperimentazione moderna occidentale. Ma chi è rimasto in Iraq, sotto il rigido controllo governativo, ha imbrigliato ispirazione e dialettica, spesso riproponendo, nella forma, le avanguardie europee. Chi invece è uscito dal paese, ha trovato la propria libertà espressiva ma cercato a lungo di definire le proprie forme personali riagganciandole alle origini. Due nostalgie, una sola identità da salvare.

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Alì al Jabiri dal suo studio di Ostia oggi lavora per il Qatar, Dubai e l’Arabia Saudita. Suo il portale in granito voluto da Al Jazeera, a memoria dei giornalisti morti in guerra. All’epoca anche lui ha ritratto il dittatore. Le sue opere però erano in oro zecchino. Del volto di Saddam furono fatte 160 copie. Suoi anche molti monumenti nelle piazze, all’aeroporto, negli edifici pubblici. Tutto distrutto nel 2003. Chiese e ottenne da lui la possibilità di realizzare le sue opere, come poi fecero gli autori dei grandi monumenti che celebravano il raìs, nelle grandi botteghe d’arte italiane, ma anche di garantire, a chi usciva dal paese per evitare il servizio militare, di rientrare per stare un mese con la famiglia, finire gli studi e poi ristabilirsi in Iraq esonerato dall’arruolamento. “In questo modo ho salvato tanti connazionali. Ii avrebbero mandati al fronte per combattere contro l’Iran. Tanti frequentavano il primo anno di Università, altri erano meccanici, cuochi, io garantivo che erano artisti, studiavano e stavano con me. Molti li ho fatti sposare, li ho ospitati a casa mia. Dovevano essere in guerra”. In un museo nel quartiere di Dora, c’è ancora “L’infanzia morta in guerra”: un cubo in plexiglas di tre tonnellate al cui interno ci sono frammenti di quaderni, disegni, resti di merendine, piccoli giocattoli, matite. Ali li ha raccolti personalmente in una scuola dove un missile aveva ucciso 130 bambini. Saddam in persona lo scelse tra altri progetti. “Mi stimava come uomo e artista, ma io non ero amico né del partito né del regime. Ho lavorato anche per lui, come lo hanno fatto molti altri. Ma io mi interessavo e mi interesso di arte, non di politica”.

“Tanto un artista trova sempre il modo di esprimersi, ma molti ritenevano di non poter fare un’arte seria, che trattasse società e problemi in Iraq, perché secondo il dittatore non c’erano problemi in Iraq. Chi rimaneva in quel giro invece, faceva più mostre ed eventi ”, spiega Aziz Karim, raccontando l’inizio degli anni ’80. “Poi ad certo punto non si trovavano più i materiali. Conoscevo un uomo che produceva i colori in casa e poi li vendeva ai pittori”- aggiunge Basil Alali. “Intanto mio nipote partiva per il fronte. Aveva 19 anni, non era neppure sposato. Non abbiamo più avuto indietro il suo corpo”. Basil è un ingegnere e critico letterario, in Italia dal 1991. Ha studiato in Scozia grazie al governo. Arrivato a Roma ha incontrato gli artisti suoi connazionali e da loro si è lasciato ispirare per realizzare ceramiche e mosaici nello studiolo ricavato sul balcone, al Pigneto. Quando nel 1974, subito dopo la laurea, è tornato dalla sua famiglia, le donne irachene indossavano la minigonna, compresa sua sorella.“Le portavo spesso qualche regalo da Londra, ma di minigonne lunghe non ne trovavo”, sorride. Anche Aziz è ironico: “Sono pochi gli artisti belli. Ci siamo solo io e Modigliani”. Nato a Nassirya e diplomato all’Istituto d’arte di Baghdad, vive nella capitale dal 1973. Calligrafo, illustratore, ha fatto anche l’artista di strada. “Io sono grato all’Italia. Nonostante la vita sia difficile, ho trovato gente che mi ha aiutato. Mi ha dato pane e cultura. E la mia arte è un miscuglio della mia cultura e della vostra”.

Anche i fondatori dell’accademia di Baghdad hanno studiato in Europa. Re Faysal II ne spedì personalmente alcuni a studiare in Francia tra gli anni ‘40 e ’50. Nacque l’arte moderna e contemporanea irachena e con essa decine di musei e gallerie, che hanno resistito fino al 2003 a saccheggi e distruzioni. “La nostra generazione si è formata con Jawad Salim, autore di Nasb Al Hurriya, il Monumento alla Libertà, la Guernica d’oriente. Ma anche Faik Hassan, Shakir Hassan al Said, Khalid al Rahal, Ismail Fattah..” – spiega Lateef Etawi, che ricorda le ultime edizioni della Biennale di Baghdad, alla quale venivano invitati tutti gli artisti del mondo arabo.“All’epoca del regime venne creata anche la Lega degli Artisti Iracheni, con una sede accanto alla scuola di Belle Arti. Vicino all’istituto di Al Monsur c’era anche una scuola di danza classica. Fino all’inizio degli anni ‘80 il governo organizzava una festa all’ambasciata a Roma, per la quale arrivava appositamente un volo per portare i datteri colti di giornata. Poi tutto è finito con l’industria bellica e l’acuirsi dei contrasti tra sunni e scia”. Lateef termina l’Accademia a Baghdad nel 1979, nel 1980 arriva a Siena per studiare italiano, prima di diplomarsi anche alle Belle Arti di Roma. Pagava 10 mila lire al mese il suo posto letto. Le foto in bianco e nero scattate in Piazza del Campo lo riempiono di ricordi. Alì non torna a casa dal 2002. Fino a quella data i suoi viaggi erano frequenti. Racconta di aver accompagnato molti nomi noti a celebri Festival, come quello internazionale di Babilonia: “Ho portato Giulietta Masina, ma senza il marito Federico perchè lui aveva paura del volo. Poi Alberto Moravia, Antony Queen, Gina Lollobrigida. Ho conosciuto anche Pier Paolo Pasolini, in un ristorante di Trastevere. E’ scomparso poco tempo dopo, avevamo parlato di fare un progetto insieme, forse una scenografia”.

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La storia si ripete. Gli equilibri nel mondo arabo sono cambiati rispetto a 30 anni fa. O forse no. Per Basil sono più “occidentalizzanti”. Per tutti invece, il regime di Hussein era stremante, ha annullato molte libertà, ha radicalizzato le divisioni etniche ma ha saputo tenere insieme il paese. “L’Arabia Saudita sicuramente non vuole vicino paesi democratici, per questo suo sistema medievale, e anche Iran, Giordania, o Turchia hanno interessi contrastanti tra loro in Iraq. Io sono anche a favore di una divisione: scia nel sud e sunni ad ovest e curdi nel nord. Aziz non se la sente: “Allora facciamo il muro di Berlino..Il paese è un mosaico, ma è difficile dividerlo. Però la gente adesso scappa, lascia tutto, si mescola..prima o poi dovrà stabilirsi una qualche divisone. E chi la stabilisce per noi non si sa.. Non è giusto che la stabilità sia stata cercata e si cerchi ancora di crearla attraverso la guerra. Sono sempre altri a decidere per noi, gli Stati Uniti hanno fatto cadere il regime, ma hanno lasciato il caos. Serve di regolamentare l’economia della regione, legata alle quote di vendita di petrolio. Ognuno venda solo la sua parte. Fino ad allora, la democrazia è solo una parola”. Il più critico è al Jabiri: “Quando sono andati via, non ci hanno lasciato basi forti, hanno anche tolto le armi che ci avevano dato per paura che gli sparassimo dietro. Ma nessuno di noi li ha inseguiti gli americani. Il nostro dramma è l’enorme ricchezza petrolifera e mineraria…Col mercurio rosso si fa la bomba atomica. Ci vorranno 20 anni prima di vedere la pace, ma la gente non ha più la pazienza, preferisce morire piuttosto che vedere altre atrocità”. Sul tema Califfato invece la critica è per la stampa: “Intanto scrivere ‘sciiti’ è come se scriveste ‘scimmia’. Scrivete ‘scia e sunni’, e non parlate di ‘stato islamico’, non legittimatelo neanche a parole, perché non esiste. E’proprio ciò che vogliono facciate i terroristi, legittimarsi..finanziati da chi compra loro il petrolio”.

Milioni di artisti, una sola identità. Se ai tempi di Saddam Hussein si contavano 100 artisti, adesso ce ne sono milioni: gli iracheni amano dire di se stessi che hanno sempre espresso la vita e la morte attraverso l’esercizio e il gusto dell’arte. È un filtro, una lente, una posizione privilegiata dalla quale osservare, denunciare, capire, educare. E’ qualcosa che va oltre le dittature e le guerre. Semmai il prezzo, se si è lontani, è un veleno dolce, una suad infinita.

 

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