Settancinque anni fa nasceva Beppe Viola, giornalista indipendente e creativo. Figlio di una Milano-città aperta che oggi non c’è più. Così lo ricorda un amico che lo conosceva bene
di Gianni Mura
26 ottobre 2014 – Se Beppe Viola fosse vivo, oggi sarebbe il suo compleanno. Avrebbe 75 anni, qualche by-pass, pochi capelli (tingerli, mai) e qualche nipote. Avrebbe scritto qualche libro in più, qualche canzone in più. Milano gli piacerebbe sempre di meno, cercherebbe rifugio in luoghi (poco costosi, ocio) in cui già si rifugiava: la val d’Intelvi, le colline piacentine. L’è bona la meringa ma de grana ghe n’è minga.
Se Beppe Viola fosse vivo sarebbe molto popolare, credo. Lo era già, ma cercava di dribblare questa popolarità come faceva il suo amico Rivera con i terzini. Scena, vista più volte, per strada. “Scusi, ma lei è Beppe Viola?”. “Guardi, me lo dicono in tanti, forse c’è una certa somiglianza, ma io non sono lui”.
Beppe aveva un’aria ciondolante da fancazzista, che non gli ha impedito di sgobbare come una bestia per tutta la sua breve vita e di morire lavorando, tanto per cambiare. “Come un pirla”, avrebbe chiosato lui.
È morto in Rai, una domenica sera, 17 ottobre 1982, mentre stava curando la sintesi di Inter-Napoli 2-2. “È andato”, disse al Fatebenfratelli il suo medico curante, dottor Jannacci Enzo.
Ma prima di far circolare la notizia bisognava aspettare. Il tempo necessario per l’espianto degli organi. Generoso sempre, Beppe. Anche da morto. Gli occhi andarono a una cieca madre di sei figli (questo l’ho saputo da Franca, moglie di Beppe). Da vivo, se aveva solo un sacco (mille lire) e un amico gli chiedeva una scudo (cinquemila) chiedeva a un terzo amico altri quattro sacchi per accontentare il secondo.
Era fatto così, Beppe. “Primatista italiano del mal di testa, recordman dell’accoppiata caffè-sigaretta”, si definiva. “Mio nonno aveva la passione delle carte, mio padre dei cavalli, io modestamente tutt’e due”. Prototipo del milanesone, aveva radici a Contursi, provincia di Salerno. Un giorno il padre gli aveva detto: “Vedi quella collina? Se l’è ballata tutta tuo nonno a cocincina”. Lui, l’ho visto giocare e ci ho giocato solo a scopa d’assi. In Italia e all’estero. A Montevideo per il mundialito, sera di san Silvestro. “Sciambola totale” disse Beppe. Finimmo a mangiar male in un posto deprimente e aggravammo volutamente la situazione con una sbronza triste, non di quelle secche e anestetizzanti, ma di quelle che ti fanno tirar tardi parlando delle famiglie e dei casini sul lavoro”.
Lui ne aveva, in Rai. E lo sapeva. Gli avevano tagliato anche la mazzetta dei giornali. “Resisto per battere il record mondiale di mancata carriera”. Alla Rai (mai una promozione) era entrato nel 1962. All’esame da giornalista Enzo Biagi gli aveva chiesto: “Secondo lei Fanfani è di destra o di sinistra, nella Dc?”. “Dipende dai giorni”, aveva risposto. Promosso.
Ebbe un colpo di fortuna nel ’63: cadde la linea da Wembley, finale di Coppa dei Campioni tra Benfica e Milan. Sparì la voce di Carosio e s’inserì dallo studio Viola (milanista), raccontando senza strillare il 2-1 di Altafini. Ma pochi se lo ricordano. Molti se lo ricordano per l’intervista a Rivera sul tram numero 15, che era e resta un pezzo di grande giornalismo. E per i duetti alla Domenica sportiva con due mostri sacri del giornalismo scritto dei tempi, Gualtiero Zanetti e Gianni Brera. Beppe era la spalla ideale, sapeva toccare i tasti giusti. E pazienza se aveva le palpebre a mezz’asta, come non avesse dormito. Magari s’era svegliato alle 10. Ma era andato a letto alle 5. Perché la Milano di Beppe, e di tanti altri, era notturna.
Tanti locali di cabaret vero, il Derby su tutti. Tanti locali di jazz. Girando per Brera (il quartiere, non il giornalista) nei bar trovavi Bianciardi, Arpino, fotografi come Dondero e Castaldi, pittori, attori e varia umanità. Saltimbanchi era la generica definizione di quelli nel giro dello spettacolo: Jannacci, Cochi, Teocoli, Boldi, Abatantuono, Villaggio. C’erano la Melato, Gaber, Strehler, e una fauna border line , più ci si allontanava dal centro e si entrava nel triangolo di Beppe Viola: piazza Adigrat, via Sismondi, via Lomellina. Nel condominio di piazza Adigrat vivevano molti che lavoravano a Linate.
Il padre di Viola marconista, il padre di Jannacci pilota. Uno dei centri di raccolta dei saltimbanchi era il bar di Domenico Gattullo, a Porta Ludovica. Famoso per il panino caprino e tonno e i dolci, ma i saltimbanchi arrivavano quando Domenico aveva tirato giù la claire. Lì aveva sede l’Ufficio Facce, presieduto dal signor Zambelli che doveva decidere chi aveva la faccia da milanista vero e chi no. Lì, nel retro, un maresciallo dei carabinieri in pensione preparava alle ore più improbabili spaghettate e spezzatini. Altrimenti c’era sempre il baule dell’auto di Ninone Del Tonno, così chiamato perché si portava appresso buste di pasta Voiello, scatole di tonno Consorcio e qualche sleppa di grana “perché non si sa mai”. Lì era un porto di mare che s’apriva ai naviganti, e anche ai naufraghi, purché garantiti da uno dei saltimanchi o con faccia da vero milanista.
Beppe era portatore di un giornalismo senza piedistalli, incline alla battuta e all’ironia. Mai successo, prima e dopo di lui, che un servizio sul derby di Milano non sia andato in onda (alla Domenica sportiva, per giunta) perché troppo brutta era stata la partita. “Vi trasmettiamo quello dell’anno scorso, almeno era calcio”. Gran trovata degna d’un surrealista. Ma Tito Stagno non gradì.
In Rai, Beppe divideva l’ufficio con Adone Carapezzi, complice e sodale. Gli uffici degli altri erano ordinatissimi, non una biro fuori posto. Quello di Beppe, un casino. O un altro porto di mare. Ci potevi incontrare cassiere fuggite dal marito manesco, allenatori di calcio, spogliarelliste, oppure quelli che avevano una soffiata garantita sulle sesta corsa. O quelli che avevano svuotato un tir e dicevano: “Dottore, ci interessa l’affare in blocco?”. Erano tremila carriole. Ma ci poteva trovare anche Jean-Louis Trintignant, che nei ritagli di tempo (stava girando un film a Bergamo) arrivava in corso Sempione con una sporta di formaggi e bottiglie di Bourgogne.
Beppe era figlio di una Milano-città aperta che oggi non c’è più, o se c’è esce allo scoperto solo per i funerali (come quelli di Jannacci). Era un attento osservatore degli altri
E anche ascoltatore. Non sopportava di essere chiamato dottore. Aveva passato più tempo sui biliardi di largo Augusto che sui libri di scuola. Quando sul tabellone aveva letto: “Viola Giuseppe, respinto” aveva commentato: “Non è giusto, non mi hanno mai visto. Disperso, dovevano scrivere”. Si era laureato all’università della strada, come Alfredo Di Stefano. Non era di quelli che passano un’ora al trucco-parrucco. Sudava come una bestia. Mai stato abbronzato. Per com’era fuori non era la faccia ideale per la tv, e nemmeno per com’era dentro.
È stato giornalista, sceneggiatore, autore di libri, di testi per il cabaret, di canzoni. Aveva fondato “Magazine”, agenzia di servizi giornalistici, sede al pianterreno di una villetta in via Arbe. Per i frequentatori assidui, era il marchettificio. Dalla “Voce dei vigili urbani” a “Bimbosapiens”non c’era testata per cui il marchettificio non sfornasse pezzi più che decorosi, talvolta anche belli. “Ci manca giusto la Pravda”, diceva Beppe. C’erano regole precise: 5mila di multa a chi scrivesse “sfrecciano”, 10mila per “ginocchio in disordine”, 20mila per “il centrocampista va a battere”. Il tutto girato a un fondo da spendere alla salumeria dietro l’angolo, in cibi il più possibile grassi . “Il gozzo ride ma poi il fegato telefona”, sentenziava. E giù nervetti e cipolle, o mortadella, o quelle frittate fredde che si digeriscono a fatica”.
È stato libero, indipendente. Molti dicono che sia arrivato troppo presto, ma io dico che è arrivato al momento giusto. È morto troppo presto, semmai. Nel ’66 aveva sposato Franca, la bambina del piano di sopra in piazza Adigrat. Franca mi ha detto della visita di Giuliano, un amico di Beppe, a pochi giorni dal funerale. Un omone con le mani come badili. “Se fossi un avvocato difenderei la vostra famiglia, se fossi medico la curerei, se fossi professore insegnerei alle bambine. Ma ho solo una cosa, la forza. Se qualcuno infanga la memoria del Beppe o dà fastidio a te e alle bambine, ti te me ciamet e mi el massi“.
Gliel’ha ripetuto qualche giorno fa, anche se ha ottant’anni, anche se le bambine non sono più bambine, hanno figli e tutte e quattro hanno preso da Beppe. Una insegna letteratura italiana negli Usa, e ha pubblicato da Feltrinelli un libro sul padre, l’anno scorso. Una si occupa di teatro. Una lavora al carcere di Bollate dopo aver badato a tossici e rom. Una ha un’agenzia per scrittori. Quando Beppe morì, la più piccola aveva tre anni e quando le dissero che papà era morto chiese: “Chi gli ha sparato?”.
Nessuno. Lo ha sgambettato la vita. Ma tanti ricordano quei du occ de bùn, e tante altre cose. A Milano quelli che dicono la mia serva ci sono ancora. Ma ci sono ancora quelli che ricordano la vita breve e piena di Beppe, non riescono a dimenticarlo e nemmeno ci provano. Perché, diciamolo inter nos e coi dovuti modi, lavorare con Beppe ed essere suoi amici è stata una gran botta di culo. Più che azzeccare la tris.
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