A Kiev non c’è persona che non mostri una forma di tristezza
di Pietro Rizzi, da Kiev
tratto da EastJournal
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26 ottobre 2014 – La Kiev che si conosceva fino ad alcuni mesi fa, almeno fino alla caduta di Yanukovich era una città, almeno per il centro, opulenta, estroversa, esagerata in tutto, quasi sfacciata. Ad avere soldi nella capitale si poteva ogni cosa, e nonostante una differenza abissale tra i ricchi, i famosi oligarchi, e la gente comune che vive con stipendi non superiori a 200 o 300 euro, questa convivenza andava avanti senza grossi traumi. Ma dopo gli eventi del Maidan, la Crimea e soprattutto la guerra dell’est (ed i suoi morti) molto è cambiato.
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Gli oligarchi continuano a tirare i fili di questo paese ma evitano l’ostentazione, che in passato amavano molto, un po’ come forma di rispetto nei confronti di chi soffre degli eventi in Donbass un po’ per paura di diventare oggetto di attacchi. La città si mostra incredibilmente buia e fredda: i monumenti un tempo illuminati a giorno rimangono ora scuri, quasi invisibili nella fredda notte di Kiev ed i termosifoni, un tempo bollenti giorno e notte per portare a temperature per noi eccessivamente calde, sono ovunque freddi a dimostrazione che l’inverno è alle porte e la paura che non vi sia il gas per scaldarsi è reale. Una forma di economia di guerra.
Maidan e Kreshatik, pochi mesi fa centro delle proteste e luoghi di partenza degli scontri e delle prime vittime appaiono ancora più bui del resto delle città. I segni delle violenze sono ben visibili, con molti palazzi che seppur coperti da tabelloni patriottici ed enormi bandiere ucraine non riescono a nascondere di essere stati al centro della guerriglia urbana di non molto tempo fa. C’è poca gente e tanta polizia quasi a dimostrazione del timore delle forze governative che possa tornare ad essere un luogo dove le masse, organizzate o meno, possono rivendicare il diritto a manifestare, pacificamente o no, in caso di malgoverno o di semplice disapprovazione dell’operato di chi detiene il potere. L’aria che si respira, nonostante la pace apparente, è quindi di forte instabilità.
Ad est l’accordo siglato a Minsk non ha ancora messo fine agli scontri e a Kiev non c’è persona che non mostri una forma di tristezza. Tutti hanno parenti che in un modo o nell’altro sono finiti a combattere ad est o che si trovano nel limbo in attesa di essere inviati nelle zone di guerra, come volontari o come richiamati. E ad essere richiamati sono coloro che hanno fino a sessant’anni.
La preparazione, a detta di molti, è tristemente cinica. Una settimana di corsi, pacche sulle spalle, istruzioni che sono più di buon senso che militari. Una forma di legge di Darwin sembra essere l’idea principale che aleggia: il più forte, o il più fortunato sopravvive, gli altri saranno vittime eroiche di un conflitto che rivaleggia ormai con quella che viene definita la Grande Guerra patriottica, e cioè la Seconda guerra mondiale. Perché si sa, una certa forma di sano patriottismo misto a nazionalismo non può non essere coltivato dallo Stato. Tramite bandiere in ogni luogo, il motto “Slava Ukrayni” (gloria all’Ucraina!) scritto in ogni dove, dalle pubblicità in televisioni, alle facciate dei palazzi, il giallo ed il blu, i colori nazionali, utilizzati ovunque. Le televisioni fanno tristemente vedere quanto succede – perché ancora succede – ad est: morti, feriti, soldati a letto senza arti ed in condizioni raccapriccianti: son queste le immagini che creano uno spirito nazionalistico che per certi versi è reale ma per altri versi è opportunamente spinto fino all’eccesso. C’è una guerra, che lo si voglia ammettere o meno.
Ecco quindi che ognuno vive la sua crisi interiore per le sorti del proprio paese provando a partecipare, a modo suo, al travaglio nazionale ed è così che a parte il week end i locali di perdizione, si chiamino discoteche o lounge bar, risultano stranamente vuoti, le attività caritatevoli – vere o presunte – spuntano come funghi e chi ha sempre utilizzato la furbizia per sopravvivere trova nella situazione attuale un terreno fertile per coltivare nuove attività connesse con la guerra e lo stato di incertezza nella quale si trova il paese.
La moneta locale, la hrivna, ha perso molto contro l’euro ed il dollaro e così la differenza tra chi viene pagato in monete occidentali e chi invece riceve lo stipendio, o la pensione, in moneta locale si è acuita raggiungendo livelli preoccupanti. Anche chi ha una attività ne subisce il danno se non ha velocità ad adeguarsi, e così capita di pagare l’equivalente di due euro per una corsa abbastanza lunga in taxi che pochi mesi fa sarebbe costata il doppio.
Non si vede una crisi economica, quantomeno a Kiev, di portata eccezionale e la crisi del 2008-2009 appariva di maggiore portata: a pensar male si potrebbe dire che i soldi europei e del FMI sono giunti a Kiev e chi li controlla ha già iniziato ad iniettarli nell’economia, sia a titolo personale sia come politica monetaria. Ma la polizia è meno presente per le strade, e questo a Kiev significa meno corruzione e meno controlli fittizi con l’unico obiettivo di guadagnare qualche euro da parte di automobilisti spesso ignari del perché fosse loro chiesto un tributo, ma consci del fatto che ciò era il sistema, la normalità. Piccole soddisfazioni post “rivoluzione”.
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