di Anton Corbijn. Con Philip Seymour Hoffman, Rachel Mc Adams, Robin Wright, Willem Dafoe, Nina Hoss, Daniel Bruhl
Nelle sale dal 30 ottobre
di Irene Merli
31 ottobre 2014 – L’ultimo film dell’immenso Philip Seymour Hoffman è una storia sulla paura: di chi ci dovremmo fidare, chi dovremmo temere? Tratto da un romanzo di Le Carrè, che ha visitato molte volte il set e compare brevemente in una scena, La spia è quanto di più lontano dal genere James Bond, o comunque agente segreto tutto azione e armi ipertecnologiche.
Si tratta invece di un’indagine complessa, in cui si lavora di intelligence,ricerca e gioco a rimpiattino, ambientata in una livida Amburgo invernale. Ad Amburgo, infatti, erano di base 3 terroristi dell’11 settembre 2001 e da allora la città portuale dove si produce la maggior parte della stampa tedesca è sorvegliata dai servizi segreti nazionali e americani.
Un giorno vi arriva Yssa, un individuo in fuga che si rivela essere russo-ceceno, figlio di un russo che ha ripudiato e di una cecena di cui ha abbracciato la religione. Yssa è male in arnese, non ha un soldo ed è ospite da amici turchi, ma vuole recuperare il denaro che il padre, spietato criminale di guerra, ha depositato in un’importante banca amburghese proteggendolo con un codice segreto. Solo che i suoi vari movimenti- l’incontro con un’avvocatessa dei rifugiati e con il banchiere- allertano i servizi segreti di Amburgo. E a dover scoprire se Yssa sia un pericoloso terrorista pronto a farsi saltare in aria o un innocente finito in un gioco più grande di lui è l’agente Gunther Bachmann (Philip Seymour Hofmann), di base in un anonimo garage della periferia di Amburgo, caduto in disgrazia per un presunto errore del passato e costretto a lavorare con un’agente americana (Robin Wright).
Bachmann è a capo di una piccola unità incaricata di fare il lavoro “sporco” per conto del governo, e qui si scontra con la questione alla base del lavoro di una spia: quando si hanno sospetti su qualcuno è meglio fermarsi ai pesci piccoli, con successo relativo ma immediato, o cercare di prendere quelli grandi con il rischio di perdere delle vite nell’attesa? Lui ha la ferma intenzione di consegnare alla giustizia solo i veri cattivi, e indagando si convince che il russo-ceceno possa farli arrivare a un potente terrorista che agisce in Germania sotto copertura.
Deluso, solo, trascurato e con il vizio dell’alcol, Bachmann prova una grande empatia con quelli che sono rimasti “incastrati”, come ha detto Seymour Hoffman in una delle sue ultime interviste. Ha un peso nell’anima, un dolore che non riesce a condividere neppure con la sua più fidata collaboratrice (la bravissima Nina Hoss) né con l’agente americana, che lo spalleggia fin dove riesce e ha con lui un feeling umano e professionale.
La trama, tessuta finemente, si dipana fino a un amaro epilogo finale. Che ci fa rimpiangere una volta di più di aver perso un grandissimo attore: Seymour Hoffman dà a questo personaggio stropicciato sguardi dolenti, tensione trattenuta, un corpo informe che trascina tormentato e una capacità di immedesimazione da Oscar postumo.
Racconta il suo regista di aver pensato a lui fin dal momento per il ruolo del protagonista e di aver parlato a lungo con lui della costruzione del personaggio e della lingua che avrebbe usato. “Non aveva mai interpretato un europeo prima d’ora, quindi ha voluto prepararsi per mesi perché potesse essere credibile come tedesco che si esprimeva in un buon inglese”, ha dichiarato Corbijn. “E Bachmann, in qualche misura gli somigliava: è una brava persona che continua a credere nell’umanità mentre, al contrario, dimostra poca attenzione nei confronti di se stesso: E Hoffman era un grandissimo attore che non sapeva cosa fosse la vanità”. Nato dal teatro, cui tornava spesso, il grande attopre scomparso ci consegna la sua ultima battuta da par suo: un grido di rabbia umano, troppo umano…
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