Per Lele Scieri

Morto nel 1999, durante il servizio militare nella Folgore, aspetta ancora giustizia. La richiesta di una commissione d’inchiesta non si ferma

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1458957_10202570753656160_311410547_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gaspare Urso. Da dieci anni è un giornalista del Giornale di Sicilia. Vive e lavora a Siracusa dove si occupa di cronaca politica e nera[/author_info] [/author]

6 novembre 2014 – Ci sono due militari impettiti sotto una bandiera tricolore. E’ la festa delle forze armate e quei due soldati restano fermi immobili mentre l’aria viene sferzata dal vento e risuonano le note dell’inno di Mameli. Per servire le forze armate, lo stato italiano, e svolgere il servizio di leva, era partito anche Emanuele Scieri.

E’ tornato chiuso dentro una bara.

Dentro quei fasci di legno, con lui, è stata sigillata in questi ultimi 15 anni la verità sulla sua morte. La verità su quanto accaduto dentro una caserma dello stato italiano, su un giovane ventiseienne ritrovato senza vita alle 13,50 del 16 agosto 1999 sotto la torretta per l’asciugatura dei paracadute.

Quel giorno un po’ di verità è andata via per sempre insieme a Lele Scieri che solo pochi giorni prima, il 7 agosto, posava insieme alla madre Isabella e al padre Corrado nel giorno del giuramento.

Quel giorno e in tutti quelli che sono trascorsi fino a oggi la verità su un militare dello stato italiano “scomparso” per tre giorni dentro la caserma “Gamerra” di Pisa dove si formano i paracadutisti della “Folgore”, è stata ammazzata dall’”omertà e dalla viltà”. E anche da un’altra parola: nonnismo.

 

 

Verità e giustizia sono le parole che mamma Isabella e papà Corrado, morto senza sapere cosa sia successo al proprio figlio, hanno ripetuto costantemente in questi anni in cui non si sono mai arresi davanti a un muro di gomma che ha assorbito quanto accaduto la sera del 13 agosto 1999. “In  noi – racconta oggi la donna – restano fortissimi il dolore e la delusione perché non siamo riusciti a ottenere una risposta”.

Il 13 agosto è il giorno in cui Emanuele Scieri, dopo aver iniziato il servizio di leva il 21 luglio dello stesso anno, arriva insieme ad altre reclute a Pisa. Ha il tempo di fare un giro tra le bellezze della città toscana prima di tornare in caserma. Sono le 22,15.

Alle 23,45 il giovane avvocato siracusano risulta assente al contrappello. Di lui non c’è traccia e non viene trovato nemmeno il 15 agosto quando prima il generale Enrico Celentano (passato alla storia anche per uno “Zibaldone” scritto di proprio pugno e che rappresenta un vero e proprio manuale per i “nonni”) e poi il colonnello Pier Angelo Corradi effettuano ben due ispezioni straordinarie. Ssono già passati due giorni dalla scomparsa di Emanuele Scieri ma nessuno dei familiari viene ancora informato. L’unica voce che riescono a sentire i genitori di Lele è quella elettronica del telefonino del figlio, spento.

Due ispezioni straordinarie ma di Scieri nessuna traccia. Il suo corpo, ormai privo di vita “torna” visibile alle 13,50 del 16 agosto 1999 quando quattro militari in servizio al magazzino-casermaggio vengono attirati dal cattivo odore e trovano tra alcuni tavoli ammassati il corpo in stato di decomposizione.

Solo in quel momento i carabinieri comunicano ai genitori di Scieri cosa è capitato al loro figlio.

Si parla fin da subito di un incidente o più probabilmente di un suicidio. Ma il corpo del siracusano, che a fine agosto di quest’anno avrebbe compiuto 41 anni, parla di altro. Racconta di lividi, escoriazioni vistose sulle nocche delle mani, un dito mignolo fratturato, una strana ferita sul piede sinistro. Lele ha anche una scarpa slacciata mentre l’altra è finita chissà dove.

A raccontare gli ultimi istanti in cui il militare è stato visto vivo è un’altra matricola, Stefano Viberti che racconta di aver fumato una sigaretta con Lele e di averlo salutato mentre il giovane siracusano preferiva rimanere ancora qualche minuto fuori dalla camerata per fare una telefonata.

Lele Scieri, è questo che emerge dalle indagini, fu costretto a salire sulla torretta con le scarpe probabilmente allacciate tra di loro e dalla parte esterna, quella non protetta. I “nonni” lo avrebbero seguito salendo invece dalla parte interna, pestandogli le mani. Forse una, due volte, fino a quando il ventiseienne perde la presa e cade al suolo, probabilmente da oltre sei metri. Cade di schiena Lele, schiantandosi su quei tavoli ammassati sotto la torretta. Ma resta vivo e muore solo dopo molte ore di agonia. Forse, sotto gli occhi di chi quella caduta l’aveva provocata.

Poteva essere soccorso e probabilmente salvato ma invece lo lasciano lì.

Il Gip della Procura di La Spezia spiega come siano “emersi elementi per affermare che la morte di Scieri possa essere ricondotta, nella forma dell’omicidio doloso o preterintenzionale, alla responsabilità personale di determinati soggetti dei quali comunque non è stata possibile l’identificazione”. I medici legali di parte rilevano invece che gli elementi sono sufficienti per ritenere che “all’episodio delittuoso siano state presenti altre persone, e che queste si siano adoperate attivamente per occultare il corpo dello Scieri, ancora in vita, celandolo tra tavoli dismessi”.

Ma nessun responsabile viene identificato.

Anzi, il processo si chiude nel 2000 con una archiviazione perché “il fatto non sussiste” e anche lo stesso procuratore Enzo Iannelli ammette come le indagini siano state ostacolate dalla “chiusura di chi ha visto e non ha parlato”.

La verità, in questa storia, è rimasta fuori tanto da quella caserma quanto dalle aule dei tribunali dove dovrebbe essere di casa la giustizia.

Verità e giustizia sono quelle chieste da un gruppo di amici del giovane avvocato siracusano. Sono loro che poco meno di un mese fa hanno creato un gruppo su facebook “Verità e giustizia per Lele Scieri” raccogliendo in poche settimane oltre 6 mila voci che si sono unite attorno a un’unica, precisa, richiesta: l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta.

Una proposta di legge per istituirla esiste già ed è stata presentata dal deputato nazionale del Partito democratico Sofia Amoddio. L’hanno firmata in 22. Ventidue deputati su 945 parlamentari e la proposta è bloccata alla commissione Difesa della Camera dei deputati.

Il 6 novembre è il giorno in cui Lele, nel 1998, si laureò in Legge ed è proprio questo il giorno in cui gli amici hanno deciso di avviare una campagna di sensibilizzazione, che andrà avanti fino al 10 novembre, per spingere quanti più parlamentari possibile a firmare la richiesta di istituzione della commissione d’inchiesta.

La morte di Lele Scieri, nel 1999, scatenò una forte indignazione squarciando, seppure per poco, la spessa coltre su quanto accade dentro le caserme e sugli atti di nonnismo. La sua morte aprì un dibattito che portò all’abolizione della leva obbligatoria ma per un caso come quello di Scieri ce ne sono tanti altri che non sono mai venuti alla luce. “Indagare sulle responsabilità nella morte di Emanuele – dicono gli amici – significa condannare gli episodi di nonnismo che nel caso Scieri hanno avuto il peggiore degli epiloghi, ma di cui tantissimi giovani in servizio di leva sono stati vittime. Molti di loro, dopo la morte di Emanuele, trovarono il coraggio di raccontarli”.

Sono già state presentate richieste per l’istituzione di commissioni d’inchiesta sulla morte di Scieri. Ognuna di quelle proposte è caduta nel vuoto. Così com’è caduto nel vuoto, almeno fino a questo momento, l’impegno del ministro della Difesa, Roberta Pinotti che ha chiamato la madre di Lele Scieri manifestandole la propria vicinanza ed esprimendo l’intenzione di incontrarla.

La voce di mamma Isabella è risuonata ancora una volta, il giorno dell’anniversario della morte di Lele. “Siamo impotenti – ha detto la donna – davanti a questo muro di gomma che ci ha impedito di ottenere una risposta. C’è tanta gente che ancora mi ferma per strada e mi chiede cosa sia successo. La cosa più incredibile è che tutto è accaduto dentro una caserma dello Stato italiano. La realtà è che ancora non si riesce ad andare oltre i silenzi e le reticenze davanti alle quali si è fermata anche la Magistratura”.

Oggi, a non fermarsi, sono oltre seimila persone che hanno afferrato la mano di Isabella Guarino e non si stancano di ripetere che “15 anni sono tanti per non aver ancora individuato le responsabilità nella morte di Emanuele, ma non troppi per indagare ancora”.

Perché la verità non può più restare schiantata su quei tavoli sotto una torretta.

 

 

 

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