Dopo la disfatta democratica il presidente Barack Obama rimane il capo di un esecutivo senza numeri in aula. Nel Paese che si dice liberale, ma vota conservatore, la sfida è già proiettata al 2016
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/11/sara-siddi.jpg[/author_image] [author_info]di Sara Siddi. @SiddiSara. Nata nel 1989, si laurea in lingue e in Scienze Politiche. Sarda in perenne Erasmus, da ormai 7 anni si è trasferita a Milano. AFSer inside, crede fermamente nel motto “Connecting lives, sharing cultures”. Ama la scrittura, gli States e le loro mille contraddizioni: chissà l’unione delle tre cose non porti a qualche buon risultato![/author_info] [/author]
6 novembre 2014 – “The Republican Party won it and won it big”, annuncia la CNN. E in effetti la portata della vittoria repubblicana alle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti è andata ben oltre le aspettative. La posta in gioco era alta: oltre ai 33 seggi del Senato di classe II e a tre seggi di altre classi, i due maggiori partiti americani si contendevano i 435 seggi in scadenza alla Camera dei Rappresentanti e diverse cariche a livello locale e statale.
Come previsto, i repubblicani hanno riaffermato il proprio controllo sulla Camera Bassa, conquistando 244 seggi (più altri 4 possibili) contro i 178 vinti dai democratici e ai quali potranno aggiungersene altri 8. Fin qui nulla di eclatante. La vera debacle democratica si è consumata in Senato, negli ultimi otto anni sotto il controllo del partito liberale.
I numeri qui non sono così grandi come per la Camera dei Rappresentanti, ma il cambiamento prodotto da queste votazioni ha un peso tutt’altro che minimo. Fino a martedì la distribuzione dei seggi al Senato era di 53 a 45 per i democratici, equilibrio che garantiva una certa tranquillità al presidente Obama e al suo esecutivo. Con la nuova tornata elettorale le sorti si sono invertite.
Con 7 seggi in più e uno non ancora assegnato (in Louisiana si andrà al ballottaggio il prossimo 6 dicembre) il Grand Old Party ha ottenuto il controllo dell’intero Congresso americano, spingendo l’amministrazione Obama in acque quanto mai profonde.
Dal gennaio 2015, data in cui i nuovi eletti entreranno ufficialmente in carica, il controllo del Congresso da parte della destra americana si tradurrà in una lotta senza esclusione di colpi tra la branca legislativa e il presidente, detentore del potere esecutivo. Ad avere la peggio sarà, presumibilmente, proprio quest’ultimo, le cui proposte di riforma andranno incontro all’ostruzionismo conservatore del Congresso.
In una simile situazione, Obama potrà decidere di ricorrere con maggior frequenza e risolutezza ai poteri presidenziali, ponendo il veto alle proposte di riforma presentate dai repubblicani, ma sarà sostanzialmente troppo debole per mandare avanti in maniera assertiva i suoi progetti di legge. Privato dell’appoggio del Senato e con una popolarità in costante diminuzione (si parla di un indice di gradimento intorno al 40%), Obama si appresta a vivere i suoi ultimi due anni da presidente da lame duck. Il periodo ipotetico, qui, è d’obbligo ma con molta probabilità già questo venerdì la Casa Bianca ospiterà un primo incontro tra il presidente e i leader di tutti gli schieramenti di Camera e Senato. Obama dovrà cercare di capire quali e quanti margini di manovra potrà avere e se l’adozione di una strategia bipartisan sarà o meno obiettivamente perseguibile.
A tal proposito, un ruolo fondamentale verrà giocato proprio dai neo-eletti nelle fila repubblicane. Da alcuni anni, infatti, all’interno del GOP coabitano due anime: una moderata e relativamente più aperta al dialogo politico, e un’altra estremamente conservatrice, vicina al ‘Tea Party’.
Qualora l’ala più estremista dovesse accrescere la propria sfera di influenza all’interno del partito repubblicano, le possibilità per l’attuale amministrazione di evitare la paralisi del sistema politico americano – e la conseguente caduta d’immagine della presidenza – saranno verosimilmente vicine allo zero.
In quest’ottica, sarà interessante vedere come decideranno di comportarsi, tra gli altri, Mitch McConnell e John Boehner, entrambi repubblicani e rispettivamente futuro leader del Senato e Speaker della Camera dei Rappresentanti. La decisione di gestire in maniere responsabile e moderata il potere conquistato durante queste ultime elezioni potrebbe giocare a favore dei repubblicani, anche in vista delle prossime presidenziali previste per il 2016. Arginando le spinte estremiste interne, infatti, il GOP avrebbe la possibilità di attrarre i voti di quell’ampia fetta di elettorato che occupa il limbo degli indecisi e che, come in ogni buona corsa elettorale che si rispetti, rappresenta il peso che fa pendere l’ago della bilancia dall’una o dall’altra parte.
In casa dei democratici, invece, la sconfitta va elaborata e va elaborata in fretta. La più che comprensibile delusione dovrà lasciare presto il posto ad un’analisi fredda e razionale delle mancanze del partito. Se è vero che, infatti, il grande sconfitto di queste elezioni è Barack Obama, è altrettanto vero che non sarebbe giusto far ricadere sulle sue spalle tutte le responsabilità di questo risultato elettorale.
Il partito democratico non è stato in grado di compattarsi intorno al presidente, mostrando così la gravità delle fratture presenti al suo interno e perdendo il sostegno di parte del suo elettorato (a mancare questa volta sono stati, soprattutto, i voti delle donne e delle minoranze). Nei due anni a venire, pertanto, i democratici dovranno da un lato evitare di aggravare la posizione di debolezza dell’amministrazione Obama e, dall’altro, ricompattarsi intorno a un nuovo candidato presidenziale capace di suscitare l’entusiasmo e la fiducia della popolazione americana, riproponendo in chiave più realista quella visione ottimistica di cambiamento proposta da Obama nel 2008. Il nome di Hillary Clinton è sulla bocca di tanti da ormai un paio d’anni e una sua eventuale candidatura potrebbe rispondere a tali necessità.
È possibile concludere, quindi, riflettendo su come le midterm elections di quest’anno segnino tanto lo stadio conclusivo dell’era Obama quanto l’inizio di una nuova fase della politica made in USA. In attesa delle elezioni presidenziali del 2016, non resta che osservare come i due campi decideranno di organizzare gli schieramenti e quali pedine faranno scendere in campo.
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