Forse è venuto il momento di riprendere un discorso sulla democrazia dei corpi separati dello stato, in modo urgente perché i morti e i maltrattati cominciano a essere veramente troppi
di Bruno Giorgini
8 novembre 2014 – Assolti il primario del reparto detenuti del Pertini, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti; gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, gli agenti di Polizia Penitenziaria Mario Lucio D’Andriai, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Così decise la Corte d’Appello presieduta da Mario Lucio D’Andria in merito all’omicidio di Stefano Cucchi arrestato il 15 ottobre 2009 per detenzione di droga e deceduto – certamente non per cause naturali – una settimana dopo nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. E le cause non naturali altrettanto certamente ebbero origine e/o furono comunque propiziate dal feroce pestaggio che Stefano Cucchi subì durante la detenzione, cui si cumularono una serie di angherie e violazioni dei suoi diritti allucinanti.
Cominciando dalla verbalizzazione dell’arresto come “albanese” senza fissa dimora, per cui il giudice, fingendo di non vedere cosa significava il suo volto tumefatto, stabilì che l’imputato non poteva accedere agli arresti domiciliari (e non che se fosse stato albanese i fatti di mala giustizia sarebbero stati meno gravi), per continuare col rifiuto di chiamare l’avvocato da lui indicato, proseguendo coll’interdizione ai suoi familiari di vederlo quando è già in ospedale, terminando col suo corpo abbandonato morente in un reparto detentivo ospedaliero mentre strenuamente con lo sciopero della fame cerca di esistere come essere umano portatore di diritti inalienabili. Siamo nel paradosso di un omicidio riconosciuto come tale dalla magistratura, tuttavia senza colpevoli riconosciuti. Con un’altra certezza: i colpevoli appartengono ai corpi dello stato, cominciando dai carabinieri, continuando con gli agenti di Polizia Penitenziaria, qualcuno lo picchiò procurandogli gli ematomi che tutti abbbiamo visto e le fratture certificate dall’autopsia, quindi con gli infermieri e i medici che non lo curarono. I colpevoli appartengono ai corpi dello stato che in una catena omertosa si sono protetti a vicenda. Con la vergogna finale documentata da una foto che sta facendo il giro del mondo, quei diti medi alzati dagli inquisiti rivolti in segno di scherno verso i familiari e gli amici di Stefano Cucchi presenti in aula, dopo la lettura della sentenza assolutoria.
Così viene subito in mente l’applauso che al congresso del SAP, sindacato autonomo di Polizia, la platea tributò ai poliziotti condannati per l’assassinio di Federico Aldrovandi, un altro morto per mano di qualche agente delle forze di polizia, in una lista che sta diventando sempre più lunga e insopportabile. E infatti il SAP non poteva mancare per bocca del suo segretario Gianni Tonelli che dichiara “Tutti assolti, come è giusto che sia. In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Sono parole che vanno lette e rilette onde coglierne la portata. In esse il Tonelli riferendosi al caso Cucchi, configura una giustizia dove esistono persone – i dannati della terra – che per la loro “vita dissoluta” e poiché vivono al “limite della legalità” naturalmente dopo essere entrate vive in galera, cioè deprivate della loro libertà e sotto la responsabilità dello stato, finiscono morte non per suicidio: la giustizia non è, per il nostro, eguale per tutti, esistono i condannati per loro natura, sia il colore della pelle, la povertà economica, l’essere stranieri extracomunitari, la religione, la marginalità, i drop out. È agghiacciante specie se si pensa che il Tonelli è un poliziotto, cioè un uomo autorizzato all’uso delle armi e della forza, per di più segretario di un sindacato i cui iscritti, immagino, si muovono sulla falsariga delle sue parole e concezioni.
Per non farci mancare niente il SAPPE, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ha denunciato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano,dichiarando che ”L’insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi pare, con ogni evidenza, voler istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione”. Ecco un esempio da manuale del mondo alla rovescia: chi chiede giustizia viene accusato di istigare all’odio, da un sindacato, sia pure di poliziotti carcerieri.
Già il sindacato, i sindacati di polizia.
Da giovane collaborai con Franco Fedeli, direttore della rivista Ordine Pubblico che ebbe l’idea iniziale, a costruire i primi nuclei di poliziotti che si riunivano e assumevano iniziative in funzione della fondazione del sindacato rivendicando innanzitutto la smilitarizzazione del corpo. Non era una mia privata iniziativa ma una azione politica nel quadro dei Proletari In Divisa, i PID, una articolazione di Lotta Continua per l’organizzazione democratica dei soldati di leva, e più in generale nei cosidetti corpi separati dello Stato, tra cui anche le forze di polizia. Furono tempi paradossali in cui sovversivi dichiarati si incontravano con agenti e ufficiali di polizia in modo riservato, per non dire clandestino, mentre prendeva corpo un movimento che traversava molte espressioni della forza armata statuale. I soldati di leva innazitutto che tra gli applausi parteciparono in divisa a alcuni cortei del primo Maggio, nonché fecero quello che, con un po’ di retorica, chiamammo sciopero generale del rancio, nello stesso giorno rifiutando il vassoio del cibo in molte caserme italiane da Nord a Sud, ma poi anche i sottufficiali dell’aviazione, e appunto i poliziotti.
Poteva capitare che andando a trovare un ufficiale della polizia di stato in caserma incrociavi nel cortile alcuni agenti che leggevano Lotta Continua, oppure che a una riunione stringevi la mano a qualcuno con cui ti eri scontrato a muso duro nel corso di una manifestazione. L’idea portante era che sviluppando l’autorganizzazione dal basso per ottenere alcuni diritti come quelli sindacali per la polizia, una volta smilitarizzata, smilitarizzazione e costituzione del sindacato andando di pari passo, e/o per i militari dell’esercito il diritto a eleggere organi di rappresentanza, la democrazia sarebbe finalmente entrata nelle caserme, e quindi anche nei comportamenti delle persone preposte per mestiere e dovere all’uso della forza. Insomma la convinzione era che quanto più i poliziotti fossero diventati lavoratori come gli altri, quindi sindacalizzati, tanto più sarebbero stati civili e democratici nell’esercizio delle loro mansioni. In qualche modo, e per vie traverse, questa idea veniva anche dalla famosa poesia di Pasolini a favore degli agenti, appunto lavoratori e dei più bistrattati, che erano intervenuti a sgomberare la facoltà di architettura a Roma in quel di Valle Giulia quando gli studenti – tra cui un giovane e combattivo Giuliano Ferrara – si batterono affrontandoli in scontri particolarmente duri, se non sanguinosi. Per me fu anche una esperienza che chiamerei antropologica. Mio bisnonno repubblicano mazziniano fece dieci anni di fortezza come, non so perchè, si diceva allora, avendo tagliato col rasoio un orecchio a una delle guardie venute per arrestarlo, mentre una seconda la gettò fuori dalla finestra. Uno dei miei nonni bracciante anarchico fu condannato a morte due volte e durante il fascismo messo in galera innumerevoli volte, l’altro minatore socialista ebbe una mano massacrata dai calci del fucili dei carabinieri, durante uno sciopero, rimanendone invalido, quindi disoccupato e nella lista nera dei padroni per il resto della vita. Tralascio gli altri parenti perchè è più o meno la stessa storia in un susseguirsi di persecuzioni tra prigioni e campi di concentramento fino a mia madre comunista arrestata dalla polizia di Scelba, aggiungendo che non fu mai gente che porgesse l’altra guancia.
Così ero curiosissimo di scoprire questi “sbirri”, anzi come si dice in Romagna, birri, e che alcuni la pensavano quasi come dei comunisti, molti erano onesti, parecchi volevano qualche diritto in caserma e durante il servizio, mentre altri erano “inquinati” dall’esercizio della violenza/prepotenza e qualcuno dichiaratamente fascista. Ma anche per costoro avevo fiducia che il possibile e futuro sindacato avrebbe avuto una funzione educativa in senso democratico, o almeno di contenimento delle pulsioni più reazionarie e autoritarie. Una volta discutendo, un ufficiale per dir così della parte avversa ebbe a dirmi grosso modo riferendosi ai suoi uomini, lei vuole la smilitarizzazione ma sa per tenerli a freno è necessaria la dura disciplina da caserma, sono dei bruti, proprio così disse: dei bruti, e io risposi scandalizzato e polemico, mai e poi mai pensando allora che venisse fuori un sindacato come il SAP, o il SAPPE, non solo corporativo e reazionario ma che mi pare sconfinare nell’omertà e copertura rispetto a comportamenti criminali fino all’omicidio con motivazioni simil razziste, e c’è da averne i capelili dritti in testa. Per fortuna esiste anche l’agente Francesco Nicito della questura di Bologna che scrivendo a L’Espresso dice “Servo lo Stato da 26 anni, soltanto grazie a un prudente disincanto che mi permette ancora di sopravvivere tra le pieghe di quel medesimo nulla costituito per lo più da ingiustizie, bugie, miserie umane, silenzi, paure, sofferenze” quindi pubblicamente chiedendo scusa alla famiglia Cucchi “per questo oltraggio infinito”, denunciando infine l’esistenza di “regolamenti di servizio che impongono e mitizzano l’obbedire tacendo”.
Stupisce invece il silenzio degli altri sindacati di polizia, ce ne è una miriade (S.I.A.P, UIL Polizia, Coisp, UGL Polizia di Sato, Consap, Silp, forse qualcun altro ancora) salvo il SIULP che molto cautamente però qualche distanza la prende dal SAP.
Il movimento per il sindacato di polizia ebbe anche il suo eroe nella persona del capitano Salvatore Margherito in forza al II battaglione celere di Padova, ben noto per la violenza dei suoi interventi contro i manifestanti. Margherito la scoperchiò questa violenza, anche nei suoi aspetti illegali, con una pubblica denuncia venendo prima arrestato, il 24 agosto 1976, imputato di attività sediziosa, violata consegna e diffamazione aggravata delle istituzioni militari in particolare a mezzo stampa con lettere a Ordine Pubblico e al quotidiano Lotta Continua, quindi processato, tra il 15 e il 28 settembre dove non si tira indietro tantomeno ritratta anzi rincara la dose, venendo condannato in primo grado a un anno quattro mesi e venti giorni con la condizionale, la sospensione dal servizio nonchè dal grado. Ma ormai il percorso della smilitarizzazione è tracciato compiendosi nel 1981, mentre nel 1980 al cinema Adriano di Roma nasce ufficialmente il SIULP che ben presto si frantuma nei molti sindacati di polizia.
A questo punto una domanda s’impone: come è potuto accadere che oggi i sindacati di polizia su questioni decisive come l’incolumità di chi viene fermato e/o arrestato, siano degenerati fino alle posizioni corporative e omertose rispetto a azioni criminali che abbiamo visto in questi giorni a proposito dell’omicidio di Stefano Cucchi, o ieri per l’assassinio di Federico Aldrovandi. Già ci furono gli avvenimenti di Genova nel 2001 con l’uccisione di Carlo Giuliani, i pestaggi indiscriminati in piazza, il massacro di chi dormiva alla Diaz, sub specie di detenzione di molotov in numero di due appositamente portate invece da qualcuno appartenente alle stesse forze di polizia, fino alle vere e proprie torture ai fermati rinchiusi nella caserma di Bolzaneto.
Forse è venuto il momento di riprendere un discorso sulla democrazia dei corpi separati dello stato, in modo urgente perché i morti e i maltrattati cominciano a essere veramente troppi. E la situazione rischia di peggiorare come mostrano le cariche e le manganellate agli operai siderurgici che manifestavano contro i licenziamenti a Roma.
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