Il passato ha presentato il conto al presidente deposto del Burkina Faso
di Lorenzo Bagnoli
@Lorenzo_Bagnoli
10 novembre 2014 – “Blaise, sei il mio migliore amico. Ti chiamavo mio fratello”. Come risposta, una smorfia, la testa che ruota e gli occhi che ne seguono il movimento. Poi un colpo di pistola fatale. Il presidente deposto del Burkina Faso Blaise Compaoré ha preso così il potere, il 15 ottobre 1987. Uccidendo il suo migliore amico e l’allora presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, il Che Guevara africano. Blaise Compaoré ha cercato in 27 anni di presidenza di scacciare il fantasma del suo predecessore, senza mai riuscirci.
Potrebbe governare altri cento anni, ma sulle pagine dei libri di storia, passerà prima come “il presunto killer di Thomas Sankara”, poi quando il tempo vincerà le ipocrisie, resterà solo il titolo di assassino. Ormai l’hanno confessato in tanti, ex accoliti del presidente liberiano Charles Taylor, uno dei burattinai che ha ordito l’omicidio di Thomas Sankara.
Taylor, per la cronaca, nel 2012 è stato condannato dal Corte Speciale per la Sierra Leone, insediata all’Aja per mandato delle Nazioni Unite, a 50 anni di carcere per crimini contro l’umanità. Le gole profonde che hanno confessato il vero svolgimento dell’omicidio di Sankara sono stati l’attuale senatore liberiano Prince Johnson, Cyril Allen, ex capo del partito di Taylor e l’ex generale delle forze armate Momo Jiba. Tutti e tre a Ougadougou per l’omicidio eccellente, come ha raccontato, nel 2009, l’inchiesta Ombre Africane del giornalista Silvestro Montanaro, trasmessa anche dalla Rai, l’ultima volta nel 2013.
Ironia della sorte, in quei giorni, Blaise Compaoré era accolto in pompa magna a Milano, per il Forum internazionale della Cooperazione. Ministro era Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Intellettuali italo-africani come lo scrittore Pap Khouma hanno scritto pagine piene d’indignazione per quell’episodio : “1° ottobre 2012 al teatro Strelher di Milano, ministri, alti funzionari italiani e europei, esponenti della cooperazione internazionale, politici milanesi, industriali, studenti, presenti al Forum della Cooperazione Internazionale, hanno accolto con calorosi applausi il discorso di Compaoré. Non penso che la presenza di un despota come ospite d’onore dell’Italia durante un evento internazionale così importante sia stata una svista. C’entra e come le ragioni di Stato”, si legge in un articolo del 22 ottobre 2012.
Le rivolte in corso a Ouagadougou, che dal primo novembre hanno costretto Compaoré a lasciare il suo feudo, si spiegano con i fatti di quella tragica notte. A quanto risulta a Jeune Afrique, Compaoré e sua moglie ora si troverebbero a Yamoussoukro, in Costa d’Avorio, protetti dal presidente Alessane Ouattara. La pazienza, l’accettazione e l’ingenuità anche tra gli africani hanno un limite. Ventisette anni, nel caso dei burkinabé. Casus belli è stata l’ennesima modifica del limite dei mandati presidenziali. Ma oltre al casus belli c’è quella notte del 1987, quell’omicidio ancora impunito su cui si addensano tante ombre.
Il lento sopraggiungere dei cambiamenti, in Africa, ha i suoi lati positivi: la storia ha le stesse solide radici dei baobab secolari, ben piantate a terra. Nulla si dimentica, nulla passa senza lasciare traccia. Nemmeno le persone dimenticano e prima o poi presentano il conto. Anche se quelle stesse persone, con i loro voti, hanno eletto per quattro volte l’uomo che oggi accusano di usurpare il potere del popolo.
Blaise Compaoré quella notte del 1987 ha liquidato la rivoluzione anticolonialista e marxista cominciata da Sankara. Ha consegnato non solo il Burkina Faso, ma l’Africa intera nelle mani dei peggiori caporali del continente, categoria di uomini di Stato a cui, premendo il grilletto, ha scelto di appartenere. Ha lasciato a Gheddafi, Yahya Jammeh (presidente del Gambia), Idris Déby (presidente del Ciad) e a se stesso, gli uomini presenti nella sala dove è avvenuto l’omicidio secondo diverse testimonianze, il compito di rappresentare il nuovo potere dell’Africa indipendente. Rivoluzionari che si sono accordati sottobanco con i servizi segreti di Francia e Stati Uniti per evitare di pestarsi i piedi. L’unico “merito” dell’omicidio Sankara è stato preservare la visione politica del capitano burkinabé da possibili fallimenti. Di Thomas Sankara restano i primi quattro anni del suo governo, i sogni di gloria, il guanto di sfida lanciato a Banca mondiale e al Fondo monetario rifiutandone l’aiuto. È rimasta l’immagine dell’utilitaria cadente con cui andava in giro, dei pasti a base di miglio consumati insieme ai contadini. La preveggenza del discorso che ha tenuto alle Nazioni Unite. Chissà, poi, se la nazionalizzazione che aveva in testa Sankara sarebbe mai riuscita. Il suo Bruto ha impedito che a questa domanda si potesse dare una risposta.
Compaoré è stato l’esatto opposto dell’ostinata autarchia, dell’orgoglio nero, del patriottismo. Se Sankara ha tramutato quello che prima di lui era la colonia belga dell’Alto Volta nel “Paese degli uomini integri” (il significato di Burkina Faso), Blaise Compaoré ha riportato indietro le lancette del tempo. È stato il mezzo di politiche altrui. “Artigiano della stabilità”, l’ha definito le Figaro: è stato il portavoce del Quai d’Orsay, la Farnesina francese, in Africa occidentale. In patria, ha condotto una politica da lui definita “rettificazione della rivoluzione”: nel 1991 ha ristabilito il multitpartitismo, ha dissolto il Consiglio nazionale della rivoluzione, ha ridato in mano le redini del Paese agli uomini d’affari, ha riconsegnato le casse dello Stato al Fondo monetario internazionale (FMI). Tutto questo alle urne gli è valso sulla carta l’80% dei voti. Eppure non si sono mai visti tanti burkinabé quanto il 31 ottobre, data della manifestazione che ha contato un milione di partecipanti. Il “bel Blaise”, come lo chiamano in patria, finalmente è il passato.