Un bilancio -critico- dell’internazionale d’arte contemporanea appena conclusasi nel capoluogo piemontese. E di quello che c’era al di fuori
di Vito Calabretta
16 novembre 2014 – Tempo fa, negli anni intercorsi tra il craxismo e il berlusconismo, si sentiva una sedicente teoria secondo la quale la corruzione è un lubrificatore della dinamica democratica che rende più fluido il funzionamento della società e, in particolare, della sua struttura politica, se non per altro, perché foraggiandone le componenti le mette in condizione di agire con più agio. Non ho alcuna voglia, qui, di cercare di ripescare nella memoria il perverso meccanismo probatorio che millantava la ragione sottostante a questa effervescente tesi.
Riprendo il triste ricordo perché mi è tornato in mente, a Torino, mentre assistevo alla sceneggiata imbastita da Francesco Bonami nelle sale di Palazzo Cavour, mentre di stucco ascoltavo le idiozie che diceva nel tentativo di fare lo stupido quando, semplicemente, era stupido.
Nelle sale del Palazzo, accompagnata da una fragorosa grancassa mediatica, si presentava l’iniziativa sulla quale la Torino della fiera Artissima ha tanto puntato: “Shit and Die”, caca e muori, affidata a un trio di curatori del quale se ne menziona uno solo, Maurizio Cattelan. «Conosco Maurizio Cattelan che è una persona a modino e non avrebbe mai lasciato della terra in giro per la stanza», dice Francesco Bonami con l’aria di voler apparire indifferente nel fare il simpatico. Le altre due curatrici non vengono prese in considerazione. In realtà l’operazione ruota intorno alla capacità presunta da parte di Cattelan di attrarre l’attenzione e consentire all’industria in questione di costruire una patina catalizzatrice utile a fare girare fondi finanziari, una parte dei quali resta appiccicata da qualche parte.
Egli è infatti un utile jolly al servizio di un sistema finanziario altamente munifico; è titolare (non è detto che ne sia l’ideatore ma ne è il responsabile civile) di una certa quantità di spazzatura la cui produzione gli garantisce probabilmente lauti compensi monetari: l’asino impagliato, il papa colpito da un meteorite, il dittatore che prega, il bambino impiccato, lo scolaro inchiodato al banco, il gallerista scotchato al muro e si potrebbe andare avanti con la suora sodomizzata dalla croce, il banchiere con la diarrea, l’artista che cerca di imitare Jerry Lewis, il velocista con i pattini oppure il recordman che bara tagliando il traguardo con la stampella, la pornostar vegetariana…
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È un meccanismo simile a quello della speculazione sui prodotti finanziari derivati: il giro produce giro che produce giro e in questo sfarfallio l’unico elemento degno di nota sono i soldi che girano. Alla base, quella che altrove è la cartolarità di riferimento è qui una accozzaglia di cose definite arte, di tutto un po’: un’installazione di Pascale Martine Tayou, una pedana che, ci spiega Bonami, prende ad esempio il materiale Ikea, una fila di metronomi in azione intorno a un’automobile che si accartoccia nel tempo (tutta roba vista e rivista), la fotografia di un artista che defeca sulla spiaggia e poi qualcosa di Marisa Merz e un lavoro gradevole di Roman Signer.
Insomma: c’è di tutto con tutto il contrario e il risultato è il nulla. Fa tristezza vederci Signer (per non parlare di Merz) perché il suo lavoro è interessante e in quella sede viene distrutto, diventa ideuzza solo più felice di altre.
Si tratta di una iniziativa perniciosa perché il suo essere fatta di niente non resta innocuo, ma dal vuoto pneumatico di cui consiste, produce danni: risucchia il senso anche laddove c’è (per esempio nel lavoro di Merz e di Signer, in alcuni aspetti di Tayou) e lo conduce sul piano del nulla; promuove questo nulla come opzione possibile di azione (in questo caso artistico e culturale) così come la corruzione promuove il comportamento pernicioso, talvolta additandolo come virtuoso («siamo ladri in Italia per vendetta contro i domini stranieri» diceva quella stessa sera in un ristorante un operatore del settore automotive che discuteva con alcuni commensali su come evadere il fisco); occupa spazio pubblico disturbando la nostra esistenza, perché fare uno sforzo per vedere una persona che caca (senza che ciò sia il frutto di un motivo) arreca alla nostra esistenza solo fastidio; toglie risorse a chi lavora (esattamente come succedeva ai tempi di tangentopoli), sia dal punto di vista finanziario, sia dal punto di vista esistenziale (che sollievo, poi, in fiera al Lingotto, vedere il dittico di Andrea Galvani nello stand di Marso, l’immagine di Giovanni Ozzola in quello di Continua, quella di Zoe Leonard da Raffaella Cortese o il teatrino di Penone da Tucci Russo e mi fermo qui). È il modo di agire di Giovanni Allevi, di Alessandro Baricco, di Umberto Galimberti.
Le persone di buon senso hanno smorfie di disgusto e tendenzialmente tacciono per vari motivi (autodifesa, anelito all’oblio) mentre io credo che sia importante indicare i fenomeni per ciò che sono. Non che io sia contrario all’esistenza dello scemo del villaggio anzi la ritengo una figura salutare e utile e le scemenze contengono sempre un quoziente di verità; ma credo che sia importante non utilizzare lo scemo del villaggio per speculare sulla sua facoltà additandolo come genio, speculando sul fatto che anche le sue scemenze contengono ovviamente qualcosa di vero.
Questa è Torino al tempo di Artissima, mentre poi in fiera si trova una parte della normalità, nel buono e nel meno buono (con una presenza pesante di prodotti mediocri, piatti, ammiccanti e malfatti). Non è solo questa la Torino di Artissima e vale la pena di dire che la città, oltre la fiera, ha un’offerta in questo periodo molto interessante, della quale possiamo sinteticamente elencare alcuni temi. Il primo è la mostra Madre di Sophie Calle, al Castello di Rivoli, è un intervento particolarmente adatto a quel contenitore, che viene valorizzato nei suoi suggestivi spazi con una proposta articolata sul tema della morte, della poesia, dell’ironia e della violenza di un legame diadico: basti pensare alla tragi-lirica scritta “souci” , le cui lettere sono composte con magnifiche farfalle spillate e che richiama il concetto di preoccupazione la cui fonte è l’espressione della mamma morente: «ne vous faites pas de soucis» (non vi preoccupate).
Vi è poi un’offerta dal mondo del disegno articolata e interessante: la mostra Intenzione Manifesta al Castello di Rivoli è stata criticata perché troppo vasta e poco organica, però ci offre una grande quantità di materiale spesso di qualità pregevole; alla Gam i disegni di Felice Castrati nella Wunderkammer e la mostra dedicata ai lavori preparatori e iniziali di Roy Lichtenstein compongono un ricco trio e, sempre alla Galleria d’Arte Moderna, c’è la mostra dedicata a Cecily Brown, pittrice molto stimata.
Antonello Viola mi ha offerta una bella descrizione di come vede il modo di lavorare dell’artista britannica, mi ha raccontato di un gesto veloce e di un lavoro alla giornata, di come gli strati si sovrappongono senza attendere l’asciugatura; ha apprezzato le citazioni dalla storia e dalla tradizione iconografica e il passare da impianti più narrativi ad altri più concentrati sulle dinamiche cromatiche. Io non sono rimasto convinto dall’economia complessiva del lavoro, del quale non ho trovato il senso, sia nelle citazioni, sia nelle scelte pittoriche (in particolare nella relazione tra fasi più dense e altre più leggere, tra aree di narrazione e altre di espressione puramente cromatica, tra momenti di ricerca eufonica e altri quasi di distrazione) e in particolare il modo di citare per frammenti la storia mi è sembrato studiato, programmatico, accademico e non profondamente giustificato. La mostra è proprio per questo generosa e ci consente di accedere al lavoro della pittrice in modo articolato.
Mi fermo qui e lascio inevaso tanto materiale che ci racconta una Torino bella, anche e soprattutto fuori dalla fiera, anche se talvolta tristemente schiava dell’industria e del profitto a scapito delle lavoratrici e dei lavoratori.
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