Perchè in Africa si muore ancora di fame e HIV: un medico in Tanzania racconta
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/09/Ilaria_Brusadelli.jpg[/author_image] [author_info]Ilaria Brusadelli, classe 1986. Ha la testa fra le nuvole ma i piedi per terra. Giornalista, perché è una buona scusa per conoscere il mondo e fare domande[/author_info] [/author]
Ilaria e’ tra i fondatori dell’associazione ¡NO MÁS!
17 novembre 2014 – Ma lì, è pericoloso? Si per l’ebola dico». Una domanda che Stefano, medico in servizio civile internazionale, si è sentito ripetere spesso in questi giorni in cui è tornato in Italia per una breve pausa. Stefano è da circa otto mesi in un villaggio della Tanzania nella regione di Iringa che dista dalla Sierra Leone quasi seimila Km in linea d’aria. Più di quelli tra Milano e Freetown che sono solo 4644 km. Eppure l’Africa è lontana e tutto ciò che è in Africa è vicino. «No, in Tanzania il pericolo ebola – risponde Stefano – soprattutto nel villaggio a 1900 metri dove si trova l’ospedale in cui lavoro, non c’è».
Anche se fortunatamente in Tanzania l’ebola non c’è, Stefano incontra ogni giorno le cause più diffuse di morte nel sud del Mondo, cause di cu si parla molto meno che di ebola ma che nel silenzio continuano a mietere vittime.
«Il tasso di HIV+ tra i pazienti ricoverati nei 50 posti letto dell’ospedale è arrivato anche al 70% in questi mesi. Una malattia devastante che anche nel resto del Paese rimane diffusissima. In più il villaggio in cui mi trovo è a circa 10 km da una delle principali arterie di comunicazione che collegano Dar Es Salaam e i Paesi limitrofi – Zambia, Mozambico e Malawi – una zona ad alto rischio di diffusione del virus. Ma per la comunità rurale del territorio anche le più semplici malattie possono portare alla morte. Perché curate male nei dispensari locali. Perché i malati non hanno le risorse economiche che permetterebbero loro di curarsi, anche questo è un fattore di morte incalcolabile. Per non parlare dei bambini che muoiono prima dei 5 anni per cause prevenibili e curabili come polmonite, complicazioni neonatali o dissenteria, e la malnutrizione ne è la principale concausa».
Nonostante sradicare la povertà estrema e la fame sia il primo degli otto Millenium Goals che tutti i 191 stati membri dell’Onu si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015, la malnutrizione rimane una sfida ancora da vincere in gran parte dei paesi del mondo.
Secondo l’Indice Globale della Fame 2014 (GHI – global hunger index), lo stato della fame è complessivamente migliorato in confronto al 1990, con un calo del 39%. Ma, nonostante i progressi fatti, la situazione mondiale è ancora grave, con 805 milioni di persone che continuano a soffrire la fame, (secondo le stime FAO). L’indice della Tanzania è 17.3, punteggio che colloca il Paese al 53esimo posto della classifica stilata sulla base del GHI dei paesi in via di sviluppo. L’ultimo gradino della classifica (76esima posizione) spetta al Burundi con un punteggio di 35.6.
«In questa esperienza, complice anche la seria mancanza di fondi che obbligano l’ospedale a operare con pochissime risorse, ho dovuto imparare molto» prosegue Stefano. «Io ho scelto di essere medico perché credo nell’inalienabile diritto alla salute di ogni essere umano che significa diritto alle cure gratuite e di SERIE A per tutti. Eppure, prima di prescrivere una cura, devo chiedere al paziente quanti soldi ha, per trovare la soluzione migliore sulla base degli scellini nella sua tasca. Oppure, prima di consigliare un farmaco, faccio i conti con l’aspettativa di vita di quella persona e con il dubbio che quei soldi invece di curare lui potranno servire alla famiglia per curare un figlio con più possibilità di farcela. E per scegliere quanto ossigeno dare a un paziente, devo ricordarmi quando arriverà la prossima bombola. Ho imparato con tutti, tranne con i bambini. Vedere un bambino morire è diverso. È come se fino all’ultimo momento volesse dire al mondo che vuole vivere, inizia a dimenarsi con tutta la forza che ha e il cuore inizia a battere fortissimo. Purtroppo in questi mesi ho imparato a riconoscere quel battito che accelera accelera, poi comincia a rallentare fino a fermarsi. Definitivamente».
Ed è questo che ha convinto Stefano a riprendere un progetto dell’ospedale per combattere la malnutrizione. «Per curare un bambino gravemente denutrito, spesso, è sufficiente seguire delle precise linee guida che stabiliscono il tipo di intervento in relazione del tipo di malnutrizione che ha. Con il capoprogetto abbiamo chiesto un aiuto ai medici di un’Ong più strutturata che ci hanno indicato il modo migliore di investire le nostre poche risorse. Abbiamo scritto in swahili le linee guida, le abbiamo condivise con lo staff locale: dalla cuoca per decidere come preparare la soluzione da dare ai bambini agli infermieri per riconoscere il tipo di malnutrizione. La mia più grande soddisfazione è aver visto un bambino arrivato in un gravissimo stato di malnutrizione riprendersi lentamente, giorno dopo giorno, fino a quando gli è tornato l’appetito e rubava il latte dalle mani delle infermiere».
Oltre alle linee guida, fondamentale è indicare a chi si prende cura dei bambini quegli alimenti che, con poche risorse, permettano ai bambini di avere l’apporto nutrizionale necessario. «Periodicamente il personale locale visiterà i villaggi vicini con una clinica mobile, per monitorare i bambini, ma anche per fare educazione alimentare e sanitaria. Questo è solo un esempio di come, anche esigue risorse, se gestite con criterio, possano fare la differenza. Ma non basta. Le cure devono essere gratuite per tutti. E non è un’utopia: basterebbero 4000 euro all’anno per rendere gratuito il reparto di pediatria».
La fame, al contrario dell’ebola, non è un’epidemia e non è contagiosa. La fame, al contrario dell’ebola, non è circoscritta in una parte di Africa ma, in modo più o meno violento, colpisce tutto il continente e non solo. E la fame, anche se non è d’attualità, uccide.
Sconfiggere l’ebola è un obiettivo da perseguire. Non tanto per un eventuale diffusione del virus in Europa, quanto per aiutare la popolazione di ormai tre stati quasi completamente abbandonati. Ma oltre all’ebola, esistono piaghe da non dimenticare. Anche se, in Europa, da decenni non fanno notizia.
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