Allerta 2, questa sconosciuta

Un viaggio nell’Italia terrorizzata dalle piogge, incapace di diventare un Paese normale

di Gabriella Ballarini.

18 novembre 2014 – Milano, 15 Novembre, ore 9.10: parto per Taggia (ma dov’è Taggia? Estremo ponente ligure).
Un giorno di pioggia e un’allerta 2 in Liguria e Lombardia.
E io?
Io mi accorgo che non ho imparato niente dal mio vecchio babbo, non ho imparato nulla e così mi metto in viaggio.

Il treno rallenta, ad un certo punto, rallenta all’altezza di Arquata Scrivia, alle ore 10.30 circa.
Da qui inizia tutto, un viaggio di consapevolezza, un viaggio tra la gente e con la gente, un viaggio in cui, ad un certo punto, ho detto: ecco perché mio padre guardava sempre il meteo!
Fiumi e torrenti e i muri che si sgretolavano al passaggio del treno, l’acqua marrone dei rigagnoli diventati fiumi all’ improvviso, gli annunci che forse le condizioni meteo sono avverse, che forse è meglio chiamare e annullare tutti gli impegni, che forse è meglio che il tempo si fermi.
E il tempo si ferma.

 


Ore 11.30 stazione di Genova Principe. Corro fuori dal treno, cambio idea, cambio itinerario, torno indietro. Corro fuori dal treno e faccio il biglietto per Milano, torno indietro, ripercorro il vecchio itinerario.
Salgo sul primo binario, attendo il treno, cambiano binario, i primi passeggeri ribelli attraversano, senza badare a nulla, saliamo disordinati sul treno 666 (che ad averci pensato prima), saliamo, ci accomodiamo, quasi mi addormento, fiera della mia decisione di cambiare idea. Un silenzio prolungato e poi: si cambia, il treno delle 12.19 viene soppresso, la voce dice: radunatevi nell’atrio della stazione, faremo un annuncio.

Un annuncio.
Un poliziotto, aiuto capo qualcosa, urla e gli si gonfiano le vene della gola e dice: zittttttiiiiiiii, ascoltatemiiiiiii. Dovete aspettare un po’, le condizioni meteo sono avverse, dobbiamo stare tutti qui.
Lui sarà la nostra guida, il nostro rifugio, il nostro orizzonte, il nostro aiuto capo qualcosa.
Capannelli si formano, un fotografo scatta, ammazza il tempo, ferma i momenti, anche quelli più noiosi. Seduti come una grande famiglia paziente, qualcuno prova ad arrabbiarsi, ma il nostro capo ci fa le battute e noi si ride tutti insieme.
Ore 17.00, del tempo ne è passato e noi lì, con le natiche congelate e gli annunci fatti sempre salendo su un muretto, come un eroe d’altri tempi. La gente si stringe attorno a lui come ad un padre, come al migliore amico mai avuto, a gente cerca il suo riferimento, il suo nord.


Il capo dice che dobbiamo stare calmi, che la situazione si sbloccherà tra mezz’ora, tra un’altra mezz’ora, tra venti minuti, tra quindici minuti e sono le 19.00.
Qui diventiamo veramente i Bradford di Genova, tutti uniti sotto una stessa grande bandiera, io mi ritrovo circondata da tutti gli stranieri, si è sparsa la voce: quella lì è un’italiana che parla inglese.
Pascolo sempre nello stesso metro con l’aria della mediatrice culturale, pascolo e dispenso traduzioni e informazioni e orari e versioni contrastanti, mentre il fotografo scatta e poi magari gli chiederò di regalarmelo uno scatto, che io c’ho tutto scarico, che dovevo solo andare a Taggia, che nessuno sa dove si trova, ma io lì ci abito e l’acqua ha inghiottito anche lì oggi, ha inghiottito e poi sputato.


Ma io ho il mio mentore, il mio maestro di vita, la mia cruz de hierro in mezzo al cammino di Santiago, il capo.
Corre una voce in giro, una voce che dice che alle 21.21 ci sarà un treno in partenza, un treno vero, di quelli che sfidano i binari bloccati e le allerta meteo annunciate.
La voce si spegne quando il capo sale ancora sul suo trono di cemento e pietra e urla: si può andare a Milano, tra 25 minuti arriverà un treno al binario 17. Non correte, ci starete tutti, comportatevi bene. Non è un padre fantastico?
Arriviamo e saliamo su un treno spento, senza capotreno, senza nessuno, ma noi abbiamo seguito il verbo e verbo sia: noi ci sediamo.


Ad un certo punto, un cambio di direzione, una voce tra il senegalese e il genovese dice: binario 15, binario 15, correte.
Corriamo, piano, perché siamo gente che rispetta l’altra gente, l’uomo con i due trolley bestemmia varie divinità, il fotografo, fotografa sperando nell’imminente tragedia, arriviamo e ci accomodiamo. Il treno è caldo, quasi un abbraccio e noi felici, giochiamo con i bambini e ci togliamo il soprabito. Quasi una specie di casa di Antonio Banderas.
Una voce giunge: binario 18, binario 18, da lì partirà il treno per la città della moda, saremo felici e troveremo posto a sedere.
L’uomo con i due trolley non sa più nemmeno come si chiama, si trascina insieme alla donna che viene da Marsiglia e al gruppo dei bulgari che porteranno in patria la magia dell’Italia e dei suoi trasporti pubblici.


Il fotografo si arrampica e volteggia tra poliziotti, svizzeri che vomitano il limoncello, bambini tedeschi che chiedono in inglese a che ora partirà il treno. E la voce dice: binario 14. Qui scatta il litigio tra poliziotti, che si scaldano, si giudicano, e il mio capo non c’è, dov’è andato? Ci ha abbandonati? Lui che poteva essere la persona giusta a cui chiedere l’ultima verità di questa giornata: ma per chi ci avete presi? Perché non ci avete lasciati nel nostro atrio, con la luce e senza la voce degli annunci, perché? Panico.
La gente ha fatto quattro saliscendi, quattro binari cambiati, senza nessuna spiegazione.


Arriviamo finalmente al binario 14 e il treno viene accolto da un applauso che nemmeno al Festival di Sanremo, urla e salti di gioia e tutti in ordine e nessuno a spingere, ormai siamo una famiglia, dopotutto.
Un altro applauso saluta la partenza del treno, il fotografo fa un ultimo scatto, io penso a mio padre e alle previsioni meteo e a quella volta che avevo cambiato direzione e avevo incontrato Trenitalia.
Arriveremo a Milano alle 00.37, dopo 15 ore.
Milano sarà deserta e i tassisti nemmeno ci saranno, la coda sarà lunghissima, ancora.
Milano sarà silenziosa, domani, che ormai è oggi, forse, capiremo.

 

 

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