Se ne parla tanto, ormai quasi ogni giorno. Si parla di Milano, dell’altra Milano. La città dell’edilizia popolare, delle case fatiscenti, dell’emergenza continua, della piccola e grande criminalità. Si parla di sfratti, di occupazioni degli alloggi, della rabbia degli abitanti, delle istituzioni che troppo spesso qui non si vedono e non si sentono.
Quartieri difficili, anche da raccontare. Per capirci un poco di più ho iniziato a girare per quei quartieri, a guardarmi intorno, a incontrare persone
testo e foto di Teresa Sala
19 novembre 2014 – Tra il 166 e il 476 nella penisola italica (allora sotto il controllo dell’Impero Romano) si riversarono intere popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali dell’Europa. Inizialmente compivano brevi incursioni saccheggiando e facendo bottino per poi tornare oltre confine. Ma a partire dal IV secolo queste popolazioni nomadi divennero stanziali e scelsero per il loro insediamento le regioni più a nord della penisola. A scuola ci insegnano questo processo storico con il nome di Invasioni Barbariche. Lo stesso evento viene studiato nelle scuole tedesche con il nome di Grande Migrazione. Questione di prospettive.
C’è una parola che nei discorsi che sento, nelle interviste che faccio nei quartieri, sento spesso: integrazione. Ma la maggior parte la pronuncia con amarezza e disillusione. L’integrazione non s’ha da fare. Non è proprio possibile.
Da una parte ci sono gli italiani, per lo più anziani, che in quei quartieri ci vivono da decenni e che non vorrebbero cambiare una virgola delle loro abitudini.
Hanno paura: paura per un futuro incerto, perché si sentono abbandonati dalle istituzioni e dalla società civile, paura del nuovo e del diverso. A San Siro si racconta la storia di un signore che è stato costretto in ospedale per un mese, quando è tornato dalla convalescenza, la sua casa era stata occupata, lui non è più riuscito ad entrare e gli occupanti non sono stati sgomberati. Ora gli italiani hanno anche paura di ammalarsi, o di andare in vacanza, per paura di tornare e trovare la casa occupata.
Dall’altra parte ci sono gli altri, i migranti. Mi chiedo quale sia la loro prospettiva su questo quartiere, su questa integrazione.
Un pomeriggio parlo con Amina, una donna marocchina sulla quarantina. Da diciassette anni vive in Italia con suo marito e le due figlie. Nel suo Paese ha studiato letteratura inglese e si è quasi laureata, ma le nozze e il ricongiungimento familiare in Italia hanno cambiato i suoi piani.
Da quando è qui ha sempre vissuto a San Siro, nella stessa piccola casa, un bilocale di quarantadue metri quadri: la camera da letto l’hanno lasciata alle bambine e lei e il marito dormono in soggiorno, con il rumore del frigorifero che gli trapana le orecchi tutta la notte. Sogna una casa più grande Amina, e di trasferirsi in Inghilterra.
Vuole andarsene perché è stanca di sentirsi sempre osservata perché indossa lo hijab, è stanca dei commenti che i vicini o gli sconosciuti le fanno, è stanca di non riuscire a trovare lavoro. Mi racconta che ha preso la nazionalità italiana però qualcuno continua a ricordarle che qui è solo un’ospite.
Poi c’è il lavoro: non riusciva a trovarlo prima e, ora, con la crisi è diventato davvero impossibile.
“Se tu hai un lavoro e un italiano non c’è l’ha? Guai! Prima andava bene a tutti che facevamo noi le pulizie, nessun italiano voleva quel lavoro. Adesso che di lavoro non ce n’è, va bene anche a loro pulire il cesso di un anziano malato”.
Amina ha fatto corsi di computer, corsi per fare la receptionist, conosce quattro lingue, eppure l’unico lavoro che le hanno offerto è fare la badante. Presto ha capito che per una donna straniera e musulmana le possibilità non sono tante. Così ha accettato. Quando l’anziano signore che accudiva è morto non ha avuto più neanche quel lavoro.
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Provo a chiederle cosa ne pensa del quartiere, qual è la sua impressione. Il quartiere in sé non le dispiace: è ben collegato al resto della città e anche ben servito.
Il problema sono i conflitti, mi dice. Tra gli occupanti abusivi e gli inquilini regolari. Tra italiani e stranieri. Per Amina è evidente al parchetto, quando porta a giocare le figlie. Le altalene sono da sempre il gioco preferito dai più piccoli e quando sono poche si crea una piccola fila di bambini in attesa. Le madri italiane controllano che i loro figli rispettino le regole non scritte dei parchi gioco: dopo pochi minuti bisogna lasciare l’altalena ad un altro bambino. Le madri musulmane, invece, lasciano i bambini ai giochi e si mettono in disparte a conversare tra loro. Subito qualche italiana viene da loro e le fa notare che i loro bambini non rispettano le regole e che loro non vigilano. Si inizia a discutere, subito inizia il conflitto.
C’è un altro grande conflitto in atto. A cui però gli italiani non pensano mai, perché in fondo non li coinvolge. Il conflitto tra le diverse etnie. Essere stranieri in un Paese straniero non rende uguali slavi, sudamericani e arabi. Anzi, allarga il problema dell’integrazione. Amina racconta che lei in piazza Selinunte non ci va più perché capita spesso che altri stranieri, rumeni o ucraini, si mettano a bere birra sulle panchine e inizino a litigare tra di loro. Il loro modo di comportarsi non le piace, non la fa sentire a suo agio.
Mi chiedo se sia possibile un’integrazione indolore, civile e che faccia tutti felici? E come possiamo farla? Una signora di un comitato inquilini mi dice che il problema è che tutto il peso dell’integrazione è stato scaricato sulle periferie (che sono già piene di problemi). Gli stranieri sono tanti in questa città ma non sono distribuiti uniformemente sul territorio, vengono buttati qui e sono loro, i vecchi abitanti e i nuovi venuti, che devono vedere di sbrogliare la matassa.
Una ragazza mi dice che qui, a San Siro, l’integrazione non ci sarà, semplicemente diventerà un quartiere arabo, un giorno, quando tutti gli italiani se ne saranno andati o saranno morti.
L’integrazione fa paura: ma lo fa da entrambe le parti.
Amina mi dice che lei non l’ha sempre indossato lo hijab. Ha iniziato a portarlo negli ultimi anni, perché si stava perdendo, perché non sapeva più chi era.
Mi racconta un episodio: una delle sue figlie era ricoverata in ospedale, nel letto affianco al suo c’era una bambina egiziana, copta, il padre, orgoglioso, chiedeva alla figlia di farsi il segno della croce per mostrare all’infermiera italiana che anche loro erano cristiani. L’infermiera ha detto “Brava! Devi essere uguale a noi!” Amina ha pensato: uguale a chi? Amina non vuole essere uguale, lei vuole essere se stessa. Rispetta le regole della società italiana, ha imparato la lingua, ha amici italiani, partecipa alle attività del quartiere come e quando può. Però è una donna musulmana, orgogliosa di esserlo. Anche se qui non è facile essere se stessi. “Non sono italiana e non sono più marocchina, chi sono io?”
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