Boom Boom Mancini e Duk: quando il pugilato uccide
di Christian Elia
@eliachr
19 novembre 2014 – Quando ci mette l’anima a morire? Ammesso che all’anima si abbia voglia di credere, una possibile soluzione potrebbero essere cinque giorni. Tanto ancora ha combattuto Duk Koo Kim, oltre le quattordici riprese contro Ray ‘Boom Boom’ Mancini. Uno degli incontri più dolorosi della storia della boxe, allo stesso tempo un sanguinante esempio di resistenza e determinazione.
Come ha ben raccontato Rodolfo Toè in un bellissimo articolo pubblicato da Pagina99 nei giorni scorsi, Duk era figlio della povertà. Ray, al secolo Raymond Mancino Michael Mancino, pure. Suo padre arrivava da Bagheria, in Sicilia, e si era guadagnato il pane a suon di pugni. Lasciando al figlio Ray il soprannome, essendo entrambi due picchiatori fenomenali, dotati di un diretto impressionante, e la fame.
A Ray va meglio del padre, la boxe entra negli anni Ottanta facendosi parte del mondo pieno di soldi degli indici di borsa alle stelle. Lui piace, picchia duro, dà spettacolo. All’inizio degli anni Ottanta, Ray Boom Boom Mancini è in grande ascesa nell’olimpo dei boxers, re del mondo dei pesi leggeri. Che li vedi e sembran piccini di fronte ai colossi dei massimi, ma che in realtà per elasticità e velocità hanno colpi che possono essere mortali.
Nel 1982, per preparare il campione alla sua apoteosi, serviva un match spettacolare, che rinfocolasse la fama di macchian da pugni di Ray, senza rischiare molto. Il coreano Duk pareva l’avversario perfetto: più o meno sconosciuto al grande pubblico, ma coraggioso e tenace, l’ideale incassatore da opporre a un picchiatore che deve fare bella figura.
Solo che di solito, l’incassatore, gestisce e punta a finire prima possibile nel modo migliore per pubblico, sponsor, media. Duk no. Lui vive la sera del 13 novembre 1982 come la sua grande occasione, nella cornice epica del Cesar Palace di Las Vegas, tempio della boxe. Boom Boom vuole esibirsi nel suo campionario di colpi micidiali, ma di fronte non trova un tattico, che incassa e scappa, rientra e svicola.
Duk viene colpito un’infinità di volte, con una potenza impressionante. Se non si conoscesse la boxe, il demone che arde nei guantoni di un match pulito, a rivedere il match sembrerebbe quasi che Duk si voglia far ammazzare. Cade, si rialza, Viene colpito, riprende. Un’infinità di volte. perché quattordici riprese di un match come questo, possono essere lunghe come le scale dell’inferno.
Alla settima ripresa, diranno poi gli esami, Duk aveva già la mascella fratturata. Boom Boom colpisce, rabbioso, quasi volendo urlare con il linguaggio del corpo ”resta a terra, cazzo!”. Ma Duk non ci resta a terra. Stanco di povertà, come si troverà scritto nel suo diario, stanco di fame e ring di seconda classe, vuole giocarsi il tutto per tutto.
Il conto arriva alla 14^ ripresa: Mancini piazza un uno-due micidiale, questa volta Duk non si rialza. Il match finisce, Duk riprende coscienza a tratti, ma in realtà è già partito per il suo viaggio. Che finisce il 18 novembre in una clinica di Las Vegas.
Chi resta non è meno ferito. Boom Boom combatterà ancora, ma più di una volta ha ricordato che qualcosa in lui si è fermato per sempre quella notte. La madre di Duk e l’arbitro, Richard Green, si toglieranno la vita negli anni successivi. Green, in quel match, chiese molte volte a Duk se volesse continuare, ma probabilmente il senso di colpa per non averlo fermato lo stesso l’ha accompagnato per il resto dei suoi giorni.
Quanto ci mette l’anima a morire? Forse conque giorni, in un letto di ospedale, continuando a sognare di cadere e rialzarsi, sognando di invertire il corso segnato di un match o di tutta una vita.