Poche speranze di una ripresa veloce per il settore industriale cinese, che soffre il calo degli ordini e la crescita dei costi, mentre il mercato domestico non riesce ancora a decollare. Ma loro, gli industriali, che ne pensano? Proviamo a dare qualche risposta utilizzando i dati dell’ultimo Business Sentiment Index e chiudiamo con un criptico slogan: “Più welfare, meno Mit”
di Gabriele Battaglia, China Files
20 novembre 2014 – Il problema fondamentale del settore industriale cinese è la sovraccapacità. È oggettivo, è la fotografia di una “fabbrica del mondo” da cui il mondo non vuole – o non può – più comprare quanto prima, nel glorioso trentennio del boom.
Ma qual è la percezione soggettiva dell’industria cinese? Come vede il futuro?
Per dare una risposta, ci soccorre il Business Sentiment Index (BSI) elaborato da un team di ricercatori della Cheung Kong Graduate School of Business, guidati dalla professoressa Gan Jie, che ha appena presentato i risultati relativi al terzo trimestre 2014.
La ricerca si è basata su un campione di 2.013 imprese industriali di diversi settori, collocazione geografica, dimensioni e assetto societario (private e pubbliche) e l’indice che ne discende è la sintesi di tre parametri: le condizioni operative attuali, quelle previste (diciamo l’economicità dell’attività industriale) e la scelta di futuri investimenti in capitale fisso. I risultati lasciano intendere che “non ci sarà una ripresa a breve termine”, spiega Gan Jie.
“Rispetto al trimestre precedente, c’è un ulteriore calo dell’indice, ma la situazione sembra stabilizzarsi un po’”. Cioè, ottimismo non alle stelle, ma stop al panico.
In cima alle preoccupazioni degli imprenditori restano la mancanza di ordinativi dall’estero e il costo del lavoro, con il prezzo delle materie prime al terzo posto. Il che è piuttosto curioso, visto che il costo petrolio sta diminuendo. Ma il calo è cominciato a novembre, cioè dopo la rilevazione del terzo trimestre. E non solo: secondo Gan Jie, i risparmi sul petrolio si perdono lungo la filiera che dalle materie prime passa attraverso i beni intermedi e che arriva quindi ai beni di consumo.
Il fatto è che gli importatori e i raffinatori di petrolio sono le grandi imprese di Stato – come Sinopec – che non trasferiscono i risparmi agli altri anelli della catena di distribuzione. Continuano così a fare grandi margini, tenendo bene al riparo gli interessi politici che vi si annidano. Manifatture e consumatori, per ora, non ne beneficiano.
Ma petrolio a parte, si diceva, è la sovraccapacità a preoccupare il 49 per cento delle imprese, anche se è stata ridotta, tant’è che le aziende non segnalano grossi problemi di inventario.
Idem i costi, a cui si è messo già mano, con una riduzione di quelli variabili. Tuttavia, a causa dei costi crescenti “qualcuno sta delocalizzando all’estero – osserva la professoressa – ma non troppi, perché la stessa Cina offre parecchio in termini di delocalizzazione: si possono spostare le attività produttive verso province più povere e molti governi locali di quelle zone non vedono l’ora che questo avvenga”.
Curioso a questo punto è notare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla narrativa ufficiale, le imprese cinesi sembrano preoccuparsi minimamente della questione del credito.
Ricordiamo la crisi di Wenzhou del 2011, con fabbriche che chiudevano dall’oggi al domani e suicidi di imprenditori. Ai tempi, di fronte al crollo degli ordinativi dall’estero, si pensò che fosse necessario offrire più liquidità alle imprese, sperimentare forme di credito privato fuori dal sistema bancario statale, anche per evitare che tutti si rivolgessero all’imperscrutabile “credito ombra”.
In realtà, il credito non è percepito come collo di bottiglia proprio per via della scarsa domanda e dei conseguenti bassi investimenti. In questa fase, non ce n’è bisogno. Ma non solo: chi vi ha fatto ricorso definisce comunque il mondo del credito piuttosto aperto e disponibile. Solo il 9 per cento del campione ha giudicato “difficile” ottenere un prestito.
Per altro, tra i fondi utilizzati, quelli interni (cioè gli utili reinvestiti) sono di gran lunga la fonte di finanziamento primaria (per il 91 per cento). Seguono i prestiti bancari (solo il 5 per cento) e i capitali iniziali (4 per cento). “In sintesi – conclude la professoressa Gan Jie – il finanziamento non è in questa fase un fattore limitante per la crescita industriale”.
L’immagine che esce dal Business Sentiment Index sembrerebbe quella di un Paese ancora in transizione, che non è riuscito a emanciparsi dalla domanda esterna per puntare invece, come spera la leadership cinese, sui consumi interni.
Cosa serve dunque alle industrie cinesi? “Più lavoratori qualificati e meno Mit”, dice Gan Jie, riferendosi all’idea della leadership cinese di creare simil-Massachusetts Institute of Technology secondo caratteristiche cinesi, per competere sull’innovazione con gli Stati Uniti. Non bisogna fare il passo più lungo della gamba, cercando a tutti i costi il mianzi gongchang, il progetto di facciata. “Il discorso sull’innovazione è lungo e complesso, ma a mio avviso siamo ancora una società industriale, abbiamo prima bisogno di creare forza lavoro di alto livello, che sappia innovare sul campo. Il che significa, tra le altre cose, migliorare scuola e welfare”.
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