Extraterrestri. Si sentono così i disabili a cui viene negato un lavoro, un futuro, e la possibilità di esprimersi liberamente
di Max Cignarelli
21 novembre 2014 – A un disabile capita spesso di sentirsi un ET, un extraterrestre. È capitato fin da piccolo anche a me. Qualcuno ti osserva insistentemente, qualcuno ti ferma per chiedere alla mamma e al papà se capisci oppure no, se sai leggere o scrivere, domande, insomma, che non andrebbero fatte a nessuno, in ogni caso.
Capita perfino che un bambino chieda al genitore perché quel ragazzo/a, quel signore/a non cammini. Alcuni dicono, poverino, è malato, dando per scontato che nessuno senta, altri rispondono “zitto! ha la bua”.
Mi sono sentito alieno anche alle medie e al liceo quando le ragazze mi guardavano come un cocco di mamma e un assessuato ed i ragazzini, fin dalle elementari, come un demente.
Al liceo mi è capitato anche con il mio professore di Italiano e Storia di cui apprezzavo molto le lezioni e molto poco il tentativo di incassellarmi dentro i suoi schemi limitati e svalorizzanti.
“Max, io ti vedrei al massimo, da un punto di vista lavorativo, come un semplice impiegato che inserisce i dati”. Insomma, come persona che al liceo linguistico andava bene quasi in tutte le materie, il mio prof. mi vedeva solamente capace di stare davanti un telefono ed un computer ad inserire dati. Io gli risposi: “Ma perchè lei ha deciso di fare il professore di italiano e non di inserire dati nel computer?”.
Voglio subito dire che non intendo affermare, ovviamente, che inserire i dati in un computer sia un lavoro di serie b, volevo solo fargli capire di non farsi guidare da suoi preconcetti verso una persona disabile.
Questa osservazione l’ha tenuta solo per me, degli altri alunni ascoltava con rispetto ed interesse tutti i loro progetti e le loro aspirazioni.
Volevo fargli capire che anche un disabile ha diritto di fare ciò che vuole: decidere di laurearsi, scegliere di andare a lavorare, anche inserendo dati, decidere di fare il programmatore di computers, l’economista, il giurista, il giornalista, il critico
d’arte, l’attore teatrale o cinematofrafico, di fare il professore di liceo o il docente universitario.
Gli esempi che ho citato, ovviamente, servono per esplicitare ancor meglio il concetto sopra esposto.
Volevo far capire al mio professore che l’amore per lo studio e l’insagnamento devono soprattutto portare ad una evoluzione della testa e del cuore: le persone disabili non devono essere represse, ingabbiate e svilite attraverso logiche caraterizzate da luoghi comuni.
Scelsi liberamente e convintamente di laurearmi. Fu un periodo di grande serenità e realizzazione, non solo perché mi sono dedicato alla mia materia preferita, la Filosofia , (dal terzo anno scelsi una specializzazione molto interessante e moderna, Storia e comunicazione dei mass media e nuovi media), ma soprattutto ero sereno perché mi sentivo pienamente inserito a livello sociale.
Piu volte ho detto che studio e lavoro sono il traguardo più alto e completo di integrazione sociale per un disabile. Purtroppo questo mio percorso non raggiunse il suo pieno compimento con il lavoro.
Nell’articolo precedente ho parlato e scritto in merito ai dati spietati della disocupazione in Italia rispetto ai disabili che possono e vogliono lavorare, situazione frutto del menefreghismo dei politici e delle barriere culturali di buona fetta del mondo aziendale, produttivo e della società.
Il lavoro io lo avevo trovato, ma è arrivato troppo tardi, nonostante i molti tentativi fatti per trovarlo. Tanti muri davanti a me. Mia mamma ha fatto in tempo a diventare anziana e mio papà a morire.
Ho fatto quattro conti. Lavorare non mi conveniva, i costi dei pulmini di cooperative private erano troppo cari ed il rimborso del comune troppo basso e fisso. Sempre uguale, indipedentemente dal prezzo della corsa, in più vi avrebbero tolto per sempre la parte di reversibilità di papa. Ecco, dunque, la beffa e il grande dolore di dover accantonare l’esperienza lavorativa.
La mancanza di politiche adeguate e servizi, hanno cambiato in peggio la mia vita. Dalla bella prospettiva di un lavoro al ripiego di un centro diurno a contatto di operatori, fisioterapisti e disabili adulti, ma rimasti bambini a causa del loro handicap psichico.
Il laureato in Filosofia va a finire in un centro diurno per non passare troppe ore inoccupato a casa. Centro diurno: una importante realtà sociale per diversi disabili con lieve o importante ritardo psichico, ma pur sempre ritardo, con qualche operatore e fisioterapista che si diverte a giocare al rapporto maestro allievo di asilo o scuola elementare, ostentando un certo compiacimento nel farlo e sentendosi importante nel suo ruolo.
Accade anche questo. A volte l’operatore utilizza con superbia il suo ruolo approfittando della fragilità del limite psichico del disabile. Ovviamente, per fortuna, non tutti, assumono tale atteggiamento, però mi sono ingeniato. Dò ripetizioni di Filosofia e Storia da casa e scrivere per questo giornale e collaborare con radio popolare, mi restituisce molta serenità, mi permette di esprimere i miei talenti, mi fa avere rapporti tra adulti, incontrare belle persone.
Il negare il diritto al lavoro o ragionare come il mio professore di italiano del liceo, sono fattori che ti fanno sentire un ET, un invisibile.
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