La Catalogna del dopo Consulta (I). Un panorama intricato
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[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/11/geniola-foto-bio-Qcode.jpg[/author_image] [author_info]di Andrea Geniola @andreageniola
Dottore di ricerca in Filosofie e Teorie Sociali Contemporanee, DEA in Storia Comparata Contemporanea, ricercatore presso il CEFID-UAB, condirettore della rivista “Nazioni e Regioni”, sta preparando una seconda tesi di dottorato presso l’Universitat Autònoma de Barcelona. Studia la costruzione, codificazione, manipolazione, semantizzazione e uso delle identità stato-nazionali, regionali e nazional-periferiche tra Spagna e Francia, nella seconda metà del XX secolo. Abruzzese, cresciuto a Bari, vive a Barcellona. [/author_info] [/author]
27 novembre 2014 – Passato un tempo ragionevole dalla celebrazione della consulta del 9 novembre, crediamo arrivato il momento opportuno fare il punto sulla situazione. L’attualità catalana è dominata da una serie di fatti che possiamo considerare come significativi. La magistratura competente, dietro richiesta del governo spagnolo, ha deciso di procedere contro le autorità autonome catalane, considerando che queste sarebbero direttamente (e non indirettamente) responsabili della celebrazione “incostituzionale” della consulta. Il Presidente della Generalitat, Artur Mas, la Vicepresidenta Joana Ortega e la responsabile del dicastero dell’Educazione Irene Rigau sono accusati di malversazione di fondi pubblici per una consulta sospesa dal Tribunale Costituzionale (TC). Un reato in ogni caso minore, che non prevede pene di prigione, fatto che comunque non ne deve sminuire il valore politico. Dinnanzi a questa misura diversi rappresentanti politici dei partiti pro-consulta, maggioritari nel Parlament, si sono autodenunciati. Per quanto riguardo il TC, questo ha finalmente deliberato, con una rapidità che non gli è consueta, circa la definitiva incostituzionalità della legge catalana per la celebrazione di consulte e il successivo decreto che convocava la consulta del 9 novembre. Nella stessa seduta l’alto tribunale ha anche dichiarato incostituzionale la disposizione catalana contro il fracking. Grazie al TC spagnolo oggi le imprese e multinazionali energetiche possono riprendere indisturbate la devastazione del territorio. Contraddizioni che forse dovrebbero fare riflettere i molti sostenitori a sinistra della legalità e dell’attuale statu quo spagnolo.
Il PSOE ha reso pubblica, la sua riflessione sulla situazione sulla base della considerazione dell’esaurimento dello Stato delle Autonomie, per come era stato costruito dal 1978 in poi. Ma l’ipotesi di una riforma costituzionale non piace al PP e senza un consenso tra i due partiti (per il momento) maggioritari non potrà esserci alcuna riforma costituzionale. Paradossi della politica, il PP di oggi si aggrappa a una costituzione che l’allora Alianza Popular (il partito di Manuel Fraga, fondatore del PP) non votò o votò con riserva chiedendo una sua immediata riforma; per l’élite proveniente dal regime franchista il testo costituzionale era andato troppo lontano su troppe questioni, e tra esse quella regionale. Il paradosso si fa più grande se teniamo presente il fatto che fu proprio il PP negli anni novanta a rivendicare la necessità di una segunda transición, però per ricentralizzare il sistema autonomico, e non certo per federalizzarlo. Membri di rilievo del partito post-franchista hanno più volte, anche di recente, fatto appello a una riduzione del numero delle regioni, limitazione delle competenze sub-statali alla pura gestione amministrativa e possibilmente ridotta alle sole nazionalità periferiche. Tornando alla posizione del PSOE, permangono seri dubbi su almeno due questioni. In primo luogo, circa il reale contenuto di questa riforma, che i socialisti spagnoli vorrebbero federalista, dato che non sono ancora chiari i contenuti di questo federalismo. Inoltre, dalle recenti dichiarazioni dei “baroni” del partito, riunitisi il 16 novembre scorso a Zaragoza, non emerge nessun degli aspetti significativi segnalati nel documento prodotto l’anno scorso dalla sua sezione catalana, il PSOE-PSC, attraverso la propria fondazione di studi. In Per una reforma constitucional federal la Fundació Rafael Campalans proponeva il riconoscimento nazionale esplicito, con tutti i crismi della sovranità, però senza arrivare alla secessione: instaurazione di un regime di bilateralità tra Catalogna e Stato con la trasformazione dello Statuto di Autonomia in una sorta di testo costituzionale. Un po’ quanto era stato messo in campo dal progetto di riforma statutaria del 2005, ribassato prima dall’accordo Mas-Zapatero e poi dalla sentenza del TC del 2010, cui accennavamo nel precedente intervento in questo stessa rivista (). Ulteriori materiali e scenari riguardanti la proposta federalista si possono trovare sul sito di Reforma Federal . La proposta integrale del PSOE, di cui i dirigenti vanno centellinando i particolari con esagerata lentezza, non prevede arrivare a questo livello di riconoscimento. Fa appello piuttosto a recuperare il terreno perduto a livello d’immagine nei settori più classici del catalanismo. Tra le proposte filtrate di recente, quella di decentrare a Barcellona una serie d’istituzioni dello Stato come il Senato, che dovrebbe diventare una vera e propria camera delle regioni, prefigurando una sorta di stato a capitalità bicefala senza però metterne in discussione né la sovranità né l’identità nazionale. È possibile che questa serie di proposte risultino insufficienti agli occhi degli stessi socialisti catalani. In secondo luogo, e di conseguenza, è lecito domandarsi se questa conversione al federalismo non sia piuttosto uno strumento discorsivo, privo di contenuto reale e volto all’unico obiettivo di vincere le prossime elezioni politiche spagnole, previste per l’anno prossimo, nelle cosiddette periferie ribelli. In entrambi i casi, vi sono dei considerevoli precedenti storici. La questione dell’autodeterminazione e del federalismo nel programma del PSOE durante la Transizione e le promesse di Zapatero rispetto alla riforma dello statuto catalano e pieno riconoscimento della Catalogna come nazione, con tutte le differenze del caso, sono due esempi in questo senso. I recenti viaggi del leader socialista Pedro Sánchez a Barcellona si vanno assomigliando a una riedizione sottotono di quelli di Zapatero.
Tra immobilismo del PP, proposta federalista del PSOE e azione legale in difesa della Costituzione, esiste anche un quarto elemento tra le reazioni di Madrid, forse polemicamente peculiare della Spagna post-franchista. Quel tintinnio di sciabole che a ogni accenno di crisi politica nazionale fa atto di presenza sulla scena politica. Il 18 novembre il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Jaime Domínguez Buj, dichiara che quando la Metropoli si indebolisce si produce la caduta, riferendosi storicamente alla perdita delle ultime colonie nel 1898. Tenendo conto del fatto che i generali dell’esercito non sono soliti dare conferenze sulla storia patria né scrivere saggi di storiografia, o perlomeno non lo dovrebbero fare, è apparso evidente anche ai più distratti che Domínguez Buj non stava parlando di Cuba, Portorico o le Filippine bensì della Catalogna. Fatto questo che la dice lunga circa il tipo di cultura politica diffusa in alcuni apparati dello Stato. Paragonare la Catalogna a una colonia fuori dalla Metropoli è qualcosa di più di un lapsus freudiano. Senza cadere nella banalizzazione, possiamo dire che ci pare difficile che oggi, nel cuore dell’Europa dell’UE, un esercito possa determinare i destini di un paese o intervenire in maniera diretta. Anche se, soprattutto in un momento di crisi generale come questo, è quantomeno inopportuno fare previsioni così nette. Cosa ci aspetta nei prossimi lustri è molto meno prevedibile di quanto potesse essere verso la fine del secolo scorso ma è anche vero che alcune di quelle previsioni post caduta del Muro di Berlino, di sorti magnifiche e progressive, si sono rivelate sbagliate. È possibile che la tirata d’orecchie dei militari (o di alcuni militari) al Governo faccia solo parte di un eterno gioco delle parti ma vale sempre la pena non prendere sotto gamba questi fatti nel momento in cui si producono. Inoltre bisogna evitare di dimenticare che esercito, forze dell’ordine e magistratura sono tra le strutture di stato meno democratizzate dalla fine del franchismo.
Una Catalogna indipendente per il 2017. Così recitava un pezzo emesso dalla CNN alcune settimane fa. Parrebbe quindi che oramai i grandi media danno per irreversibile il processo di secessione catalana. Un processo come quello in corso rende rischioso fare previsioni e complicato fissare scenari. Cosa sarà la Catalogna nel futuro lo decideranno, se e quando potranno, gli uomini e le donne che vivono e lavorano in questo paese, sempre che la legalità si pieghi alla legittimità, sempre che lo stato di diritto si pieghi ai diritti, e sempre che una legittimità non legale sia capace di generare una nuova legalità condivisa. Ancora una volta, però, l’attualità ci deve servire come trampolino di lancio per osservare lo scenario generale e l’insieme del processo, non per rincorrere la convulsione dell’istante, l’aneddoto o la moda del momento.
Una delle letture meno sentite circa la questione della Consulta del 9 novembre scorso è stata quella del contenuto della domanda fatta ai più di due milioni di elettori. Tutti o quasi hanno rivolto, anche giustamente, lo sguardo verso le percentuali di partecipazione (sufficiente ma non eclatante), il numero dei Sì+Sì (ampiamente maggioritari) e la legalità o meno di tale celebrazione; ognuna delle parti in campo con il proprio discorso, la propria retorica, le proprie ragioni o scuse. Davvero in pochi si sono soffermati, dal momento della convocazione fino alla sua effettiva celebrazione, sul contenuto della domanda e sull’uso che si farà della risposta. Separare l’affermazione dell’identità nazionale, contenuta nella prima domanda, dalla successiva creazione di uno stato indipendente, presente nella seconda, ha un senso politico che è passato generalmente inosservato, forse per mancanza di conoscenza delle storia e caratteristiche del catalanismo. A nostro parere la doppia domanda, e concretamente la seconda, ha la funzionalità di facilitare un eventuale negoziato, nello specifico con all’orizzonte una vittoria del PSOE nelle elezioni spagnole del 2015 o, quantomeno, una sconfitta del PP e la costruzione di un governo di coalizione di sinistra a Madrid. Per questo motivo la doppia domanda era gradita tanto a CiU quanto agli eco-socialisti d’ICV (la confluenza tra ex-comunisti catalani e verdi). Questa possibilità non viene meno dopo il risultato, in cui l’opzione SI-NO ha ottenuto uno scarso appoggio. Infatti, è possibile che il risultato venga utilizzato per lo stesso fine: arrivare al tavolo dei negoziati, presumibilmente con un futuro governo spagnolo di coalizione tra PSOE, IU e Podemos, però da una posizione di maggior forza. Ovviamente, per capire questo bisognerà attendere le future elezioni spagnole, il possibile anticipo elettorale di quelle catalane e l’importante test elettorale delle municipali di Barcellona.
Ci sarà referendum? E se sì, chi lo vincerà? La previsione della CNN forse si avvale di conoscenze e notizie riservate cui noi comuni mortali non abbiamo accesso. Però seguendo questa linea d’opinione potremmo giocare a disegnare scenari futuri. Se finalmente dovesse celebrarsi questo benedetto referendum (cosa che ogni critico del nazionalismo indipendentista dovrebbe ambire, dato che in un solo istante farebbe sparire dalla scena politica il conflitto nazionale e potremmo tutti pensare a cose quotidianamente più importanti), cosa accadrebbe? Allo stato attuale dell’arte, il clima sociale è così stanco dell’idea di Spagna che una vittoria del SI sarebbe più che probabile, oltre ad essere data per certa da tutti i sondaggi, con maggior o minor differenza rispetto al NO. Ciononostante, i sondaggi hanno il difetto di non essere votazioni reali. Possono aiutare a creare un fenomeno, come nel caso di Podemos, ma difficilmente possono far vincere le elezioni. In caso di vittoria del SI, la Catalogna dovrebbe avviare una lunga tappa costituente in cui diventerebbe centrale, per la riuscita del progetto statuale, la partecipazione e legittimazione popolare alle nuove istituzioni, con le potenzialità democratiche reali che questo comporterebbe. Questo però sarebbe un processo lungi dall’essere facile e agevole. Il nuovo stato catalano non nascerebbe dal nulla e sul nulla, potendo contare con l’esperienza istituzionale fatta con le istituzioni autonome, ma costruire uno stato non è cosa di poco conto. E il processo di costruzione dalla nazione allo stato non è detto che sia meno complicato di quello che dallo stato ha preteso costruire la nazione in Europa in passato. E resta comunque la domanda di fondo. Sarà la Catalogna indipendente anche pienamente sovrana?
Facendo quindi un salto enorme verso i possibili scenari, dando per scontato che prima o poi si voterà e che questa volta si tratterà di un referendum vincolante, prendiamo in considerazione la possibilità che vinca il NO. In questo caso forse varrebbe la pena dare uno sguardo oltremanica, lassù oltre il Vallo di Adriano, dove Irvine Welsh ha ambientato le vicende degli eroi di “Trainspotting”. La vittoria del NO difficilmente chiuderebbe la partita. In Spagna come in Gran Bretagna si è aperta una crisi che, anche se gestita con maggiore spirito di dialogo e attitudini democratiche, nel fondo solleva le stesse questioni, ben oltre la semplice dialettica nazionale e dalle caratteristiche decisamente post-nazionaliste: la creazione di un nuovo welfare laddove quello attuale si è esaurito o è stato malmesso o semplicemente è diventato inviabile. Non è un caso che durante la campagna referendaria scozzese sia stato l’unionismo a fare appello ai sentimenti e alla storia imperiale britannica mentre l’indipendentismo ha sviluppato una campagna più sociale, attorno all’argomento che una Scozia indipendente sarebbe stata più prospera e, libera dai tagli al welfare imposti dalla Thatcher in poi, più giusta, più libera, forse anche più a sinistra.
Per convincere gli scozzesi a restare, le forze politiche unioniste britanniche hanno dovuto promettere misure che forse non potranno mantenere. La promessa di maggior autonomia per la Scozia si è rapidamente trasformata in messa in discussione dell’intera architettura territoriale britannica: il Galles aspira agli stessi livelli competenziali della Scozia, in Cornovaglia da tempo si rivendica una qualche struttura autonoma, in Inghilterra di fa largo la necessità di avere un parlamento proprio, oltre quello dell’unione, nonché la necessità funzionale di avere un’organizzazione regionale più moderna di quelle delle contee. Limitandoci alla questione scozzese, un passo indietro in questa via significherebbe un salto in avanti nella socializzazione dell’indipendentismo. Dando uno sguardo alle conseguenze più immediate della vittoria del NO in Scozia, possiamo rilevare la crescita in prestigio da parte del governo conservatore di Londra (per aver salvato il Regno dallo sgretolamento e aver conservato la sovranità sul petrolio del Mare del Nord) ma anche del prestigio de parte dello Scottish National Party (SNP http://snp.org/) (che in un paio di mesi ha più che triplicato il numero di militanti, da 25.000 a 85.000). Ovvero, la lentezza nel concedere quanto promesso in campagna elettorale ha portato lo SNP in testa ai sondaggi in Scozia in vista delle prossime elezioni britanniche. E forse non è nemmeno un caso che, secondo gli ultimi sondaggi, se si celebrasse oggi un nuovo referendum vincerebbe il SI.
Anche in Spagna la situazione si presenta sotto una doppia prospettiva: quella della possibile indipendenza della Catalogna e quella della Spagna del giorno dopo: federale sulla base di un nuovo patto, con o senza Catalogna, o amputata e soggetta a nuove secessioni o in preda a un conflitto interno strisciante come negli ultimi anni. Come già accennato, le soluzioni sono solo due: celebrazione del referendum con vittoria del SI e inizio di un processo costituente catalano; vittoria del NO o non celebrazione del referendum con instabilità e perenne conflittualità. Questa seconda ipotesi, arrivati al punto in cui siamo di socializzazione e penetrazione di massa dell’indipendentismo, sfocerebbe nella costruzione di una massa critica indipendentista talmente numerosa da portare, prima o poi, alla secessione dalla Spagna. Questa ipotesi, lungi dall’essere qualcosa di automaticamente regressivo né intrinsecamente reazionario aprirebbe lo scenario politico a trasformazioni che possono andare dalla creazione di un piccolo stato-nazione senza capacità di sovranità reale alla nascita di un nuovo stato su basi popolari e maggiormente democratiche. Con buona pace di tutti gli attori in campo, né l’una né l’altra possibilità sono meccanicamente prevedibili ma solamente in nuce, profondamente determinate dagli scenari preelettorali. Ma di questo parleremo nella seconda parte di questo intervento.
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