Teheran ha compiuto raid contro postazioni Isis in territorio iracheno. Washington ne è ufficiosamente al corrente mentre la Turchia si riavvicina alla Russia
di Chiara Cruciati, tratto da Nena News
3 dicembre 2014 – L’Iran ha bombardato postazioni dell’Isis in Iraq: l’impegno militare di Teheran si allarga. Non solo pasdaran, ma anche raid aerei, che fanno della Repubblica Islamica ancora una volta il partner non ufficiale della coalizione anti-Isis. La notizia trova conferma (ufficiosa) anche a Washington, che ha sempre negato una cooperazione militare con la Repubblica degli Ayatollah: un funzionario della difesa ha detto che l’amministrazione Obama è a conoscenza dei bombardamenti iraniani che utilizzano lo stesso spazio aereo dei jet Usa. E, aggiunge il funzionario, la Casa Bianca non ne è particolarmente preoccupata, non ritenendo l’intervento di Teheran tanto consistente da mettere in pericolo la presenza Usa. I raid si sarebbero concentrati lungo il confine con l’Iran, in un’area che non è target della coalizione.
Certo è che il ruolo iraniano in Iraq ne esce rafforzato: primo Paese a inviare armi ai peshmerga e consiglieri militari sul terreno (il generale Suleimani, capo delle Guardie Rivoluzionarie, è stato in Iraq e ha gestito direttamente le milizie sciite irachene sul terreno), Teheran punta a mantenere la sua influenza su Baghdad, dopo la creazione di governi sciiti a seguito della caduta di Saddam Hussein.
Un ruolo che preoccupa i regimi sunniti del Golfo e la Turchia, che negli anni hanno finanziato e sostenuto più o meno indirettamente gruppi islamisti come l’Isis proprio nell’intenzione di spezzare l’asse sciita Teheran-Damasco-Hezbollah.
All’influenza iraniana fa da contraltare, soprattutto negli ultimi mesi, quella turca. Ankara è ogni giorno di più attore della guerra globale contro l’Isis e ne detta tempi e strategie. Tanto da finire nel mirino di Mosca, seppure le posizioni di Putin e Erdogan sulla questione siriana siano agli opposti: il primo preme da tempo per un ruolo di primo piano da far rivestire all’alleato Assad, il secondo che ne vuole la testa.
Ieri i due si sono incontrati nella capitale turca per discutere di questioni energetiche (Ankara fa pressioni per ridurre i prezzi del gas russo), ma inevitabilmente il discorso è finito anche sullo Stato Islamico. L’obiettivo della visita lampo è triplicare il volume degli scambi commerciali, facendolo passare dagli attuali 33 miliardi a 100 entro il 2020. Come spesso accade, è possibile che gli interessi economici facciano da apripista ad un riavvicinamento delle posizioni sull’avanzata dell’Isis e sull’Ucraina: Erdogan non ha mai appoggiato l’annessione russa della Crimea né tanto meno il sostegno di Putin a Damasco.
E mentre Mosca sonda il terreno, a muoversi è Washington, da mesi impegnata a strappare alla Turchia un maggiore impegno nella nuova guerra al terrore: secondo il Wall Street Journal, i due alleati sarebbero vicini ad un accordo definitivo sulla cooperazione militare in Siria. Ankara, riporta il quotidiano, starebbe per dare il via libera all’utilizzo delle proprie basi militari da parte dell’esercito statunitense e delle forze alleate per lanciare raid sulle postazioni islamiste in Siria e Iraq.
Fonti statunitensi e turche aggiungono che l’accordo prevedrebbe la creazione della zona cuscinetto, quella per cui Ankara ha fatto enormi pressioni negli ultimi mesi, un corridoio dentro il territorio siriano da Latakia a ovest fino al confine con l’Iraq a est, dove spostare i rifugiati siriani oggi in Turchia e dove addestrare 2mila miliziani delle opposizioni moderate. Sulla zona cuscinetto verrebbe implementata una no-fly zone, ovvero i suoi cieli sarebbero interdetti all’aviazione di Damasco.
Subito dopo la pubblicazione dell’articolo, la Casa Bianca ha smentito, dicendosi non pronta a implementare una no-fly zone sulla Siria: il portavoce Josh Earnest ha detto che Washington è «aperta a discutere diverse opzioni con la Turchia», ma che la no- fly zone anti-Damasco non è ancora sul tavolo.
Dall’altra parte del confine, in Iraq, a tenere banco è ancora la questione dei 50mila soldati fantasma. E cadono le prime teste: ieri il premier al-Abadi ha licenziato 24 funzionari del Ministero degli Interni accusandoli di corruzione, dopo la scoperta di 50mila militari inesistenti a cui il governo pagava ancora gli stipendi. Un numero consistente, pari a quattro unità dell’esercito (le cui truppe ammontano a 800mila), e milioni di dollari buttati al vento. Se lo stipendio medio di un soldato è pari in Iraq a 600 dollari al mese, ciò significa che ogni anno sono evaporati dalle casse statali 380 milioni di dollari.
Secondo l’inchiesta in corso, i soldati fantasma esisterebbero davvero, ma avrebbero evitato di lavorare – soprattutto in un periodo tanto pericoloso – girando parte del loro stipendio a funzionari conniventi, che chiudevano un occhio in cambio di una bustarella.
Non è la prima volta che al-Abadi caccia funzionari e generali perché sospettati di corruzione. L’obiettivo è ripulire il Paese e le sue istituzioni dagli strascichi dell’amministrazione Maliki, l’ex primo ministro che in 8 anni di potere quasi assoluto ha trasformato ministeri e esercito nella sua personale prima linea, infarcendoli di figure a lui vicine.
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