Presentato al 32° Torino Film Festival, Stray Dog è l’ultimo lavoro di Debra Granik, che dopo Un gelido inverno – Winter’s Bone ritorna a raccontare l’America più profonda e desolata, abbandonando però la ferocia precedente per seguire un personaggio impossibile da non amare.
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/Juri-Saitta.jpg[/author_image] [author_info]di Juri Saitta. Nato nel 1987, laurea triennale in “Scienze della Comunicazione” e laurea magistrale in “Discipline cinematografiche. Storia, teoria, patrimonio” al DAMS di Torino. Appassionato di cinema praticamente da sempre, collabora con “FilmDOC” e “Mediacritica”.[/author_info] [/author]
9 dicembre 2014 – Dopo aver vinto il 28° Torino Film Festival con Un gelido inverno – Winter’s Bone, la regista indipendente Debra Granik torna nel capoluogo piemontese per presentare il suo nuovo film: Stray Dog, un documentario che parte dal racconto di un individuo per porre una panoramica più ampia sugli Stati Uniti.
Il protagonista è Ron Hall, un veterano del Vietnam che viaggia negli States con una Harley per essere presente a diverse commemorazioni dei caduti in guerra. Inoltre, con i suoi tatuaggi e i suoi giubbotti di pelle, Ron è anche un biker che vive in una roulotte insieme alla moglie messicana, la quale lo segue nei suoi pellegrinaggi e lo sostiene nei momenti psicologicamente più difficili.
Per rappresentare tutto ciò, Debra Granik sceglie uno stile di regia molto sobrio e scorrevole, quasi invisibile, mettendosi volontariamente (e giustamente) in secondo piano rispetto al suo protagonista, facendolo così emergere in tutta la sua personalità. E, infatti, per Ron non si può non provare una certa simpatia: a colpire sono la sua determinazione, la sua (auto)ironia e la sua concreta solidarietà verso il prossimo (che si tratti di un amico indebitato o di una madre che ha perso il figlio in Medio Oriente).
Ma l’uomo è raccontato anche nel suo dolore, sentimento che non viene mai rappresentato e ripreso in modo compiaciuto e voyeuristico dalla telecamera (che segue il soggetto in maniera sempre discreta e mai invadente), ma che si evidenzia comunque in più sequenze, dalle commemorazioni ai caduti alle brevi interviste alla moglie. La condizione morale di Ron proveniente soprattutto dalla spaventosa esperienza bellica che gli ha cambiato per sempre la vita e la psiche, come spiega diverse volte il protagonista stesso.
Ed è anche da qui che parte un discorso più generale e profondo sugli Stati Uniti: come si nota in alcuni episodi, l’America è ancora un paese in guerra, che vede i suoi soldati e le sue vittime negli strati sociali meno abbienti della popolazione, strati sociali che costituiscono appunto la principale ossatura critica del film.
Se le inquadrature sulla roulotte improvvisata ad abitazione e i dialoghi sulle difficoltà lavorative della nipote di Ron approfondiscono i personaggi e aggiungono elementi sul contesto economico generale, l’episodio dell’arrivo negli States dei figli messicani della moglie del protagonista risulta emblematico per il contenuto sociale del documentario. Infatti, mentre qualcuno dice ai due ragazzi quanto l’America sia ricca di opportunità, il pubblico potrà notare i lori volti perplessi e spaesati, probabilmente dubbiosi della verità di quelle affermazioni e delle reali condizioni di vita dei cittadini statunitensi.
Un modo velato ma incisivo per ribadire il punto di vista poco lusinghiero della regista nei confronti delle politiche economiche e sociali del suo paese.
Non siamo però di fronte a un “film di denuncia”, in quanto i punti critici non sono mai esposti in modo estremamente palese, ma emergono piuttosto come sottotesto, rendendo l’opera sottile nel significato e assolutamente scorrevole nella narrazione.
Sembra comunque innegabile che con Stray Dog la Granik si addentri nuovamente nell’America più profonda e povera descritta in Un gelido inverno – Winter’s Bone, se pur con un approccio diverso: se nel film precedente il suo punto di vista era feroce e spietato, in questo caso è invece empatico e discreto, almeno per quanto riguarda i soggetti che racconta e rappresenta.
Ciò perché nel documentario in questione l’autrice è sì profondamente critica con una nazione e il suo sistema, ma sta pienamente dalla parte dei suoi abitanti meno agiati, ai quali rende un omaggio affettuoso e non privo di una certa ironia e profondità.
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