Le ombre attorno a Uhuru Kenyatta

Secondo il Tribunale internazionale il presidente keniano sarebbe stato a capo dei Mungiki, una setta politico religiosa che i kenyoti associano ad un gruppo mafioso. La chiamano la Cosa Nostra del Kenya

di Lorenzo Bagnoli, da Nairobi

 

14 dicembre 2014 – Il Tribunale Internazionale dell’Aja il 5 dicembre ha ritirato le accuse di violenze etniche che nel 2011 avevano travolto l’attuale presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta. Accusa: pulizia etnica durante il dopo elezioni del 2007-8, costate la vita a 20mila persone.

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Uhuru Kenyatta

 

Kenyatta è stato il primo presidente in carica che ha dovuto rispondere alle domande incrociate della Corte internazionale dell’Aja. Il Kenya, secondo il Tribunale internazionale, non avrebbe fornito i documenti richiesti per l’indagine. Per l’accusa, Kenyatta sarebbe stato a capo dei Mungiki, una setta politico religiosa che i kenyoti associano ad un gruppo mafioso. La chiamano la Cosa Nostra del Kenya.

In realtà si tratta di un gruppo di criminali kikuyu, la famiglia etnica dominante tra le 42 del Kenya. I kikuyu però pesano solo un quinto nel totale della popolazione del Paese africano. Motivo per il quale il voto in Kenya è fortemente condizionato dalla base etnica e che alle urne seguono sempre le proteste di piazza.

Come nel 2007, l’inizio di questo film. Si contendono la presidenza l’uscente Mwai Kibaki e il leader del movimento democratico arancione Raila Odinga. L’outsider è in vantaggio di 38mila voti secondo le proiezioni del 28 dicembre, calcolate sul 90% dei county, le province del Kenya.

Il 2 gennaio 2008, però, il presidente della Commissione elettorale Samuel Kivuitu dichiara che la presidenza andrà a Kibaki. La stessa commissione accerta che c’è stata frode: in alcune circoscrizioni la percentuale dei votanti arriva al 115%. È l’inizio di una guerra etnica: in tutto il Kenya ci sono aggressioni ed esecuzioni. Contrapposti ci sono i kikuyu, gli appartenenti al gruppo etnico di Kibaki, contro le altre etnie, minoritarie.

Le violenze non smuovono Odinga: non ci sarà negoziazione se prima Kibaki non si dimette. A Nairobi atterra una pletora di diplomatici per calmare le acque: comincia il presidente del Ghana, poi arriva l’ex leader Onu Kofi Annan, poi l’attuale numero uno delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, i suoi delegati dal Sudafrica, l’allora segretario di Stato americano Condoleeza Rice, il presidente della Tanzania (e allora anche dell’Unione Africana) Jakaya Kikwete, l’ex presidente nigeriano. Tutto appare inutile.

Il 28 febbraio il braccio di ferro tra i leader dei due principali partiti del Kenya giunge alla fine al compromesso: Odinga sarà premier del presidente Kibaki. Uhuru Kenyatta diventa vice primo ministro per il partito PNU al quale appartiene Kibaki.

I media registrano i momenti del dopo verdetto dell’ICC all’Aja: Kenyatta disteso, che elargisce abbracci e schioccare di cinque ai suoi accoliti, la sua elite di fedelissimi. La procuratore Fatou Bensouda, a cui spettava il compito di pronunciare il verdetto, non ha nemmeno finito di sentenziare lo scagionamento di Kenyatta che l’aula ha cominciato a rumoreggiare ed applaudire. “Non vedo l’ora di correre da mia moglie per raccontarle che cosa è successo. Sono molto eccitato all’idea”, ha dichiarato Kenyatta, visibilmente sollevato. Sono 20mila le vittime stimate delle violenze elettorali del 2007-8 che ancora attendono di sapere chi ha ordinato alla polizia di sparare sui manifestanti. L’esito del processo allontana ancora di più la possibilità di stabilire una responsabilità politica a quanto successo sette anni fa.

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Mwai Kibaki

Uhuru, “libertà” in lingua kiswahili, non è un uomo qualunque. Nato nel 1961, inizia la carriera politica nel 1997, nelle file del KANU. Il partito lo ha fondato suo padre, il primo presidente del Kenya, Jomo Kenyatta. L’eroe nazionale del Kenya è stato imprigionato dagli inglesi tra il 1952 al ’59, con l’accusa di essere membro dei Mau-Mau, i guerriglieri che hanno portato il Kenya all’indipendenza. Il nome è un acronimo che sta per “Lascia che lo straniero se ne vada, lascia che l’Africa si riprenda l’indipendenza”.

Tradizione vuole che i Mugiki, i criminali che secondo l’accusa dell’ICC sarebbero stati organizzati da Uhuru Kenyatta, discendano dai Mau Mau, ma invece che lottare per l’indipendenza, oggi avrebbero come scopo il mantenimento del primato kikuyu sulle altre etnie. I Mugiki avrebbero in mano il monopolio dei matatu, i colorati e rumorosi bus che intasano Nairobi, sarebbero responsabili di estorsioni e di assassinii.
Tra le accuse che aleggiano su Kenyatta, la più pesante riguarda un suo coinvolgimento nel traffico internazionale di droga. Mombasa, la più importante città portuale del Kenya, è considerata l’hub dello spaccio di eroina dall’Asia e dai Paesi arabi verso alcuni Paesi europei come l’Olanda. Lo affermano i rapporti dell’Unodc, l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite. Coinvolti nei traffici ci8 sono anche gli uomini della classe dirigente del Kenya. Nel 2011 la Casa Bianca ha inserito nella lista dei dieci narcotrafficanti più ricercati al mondo due kenyoti: John Harun Mwau (businessmen ed ex Ministro dei trasporti) e Naima Mohamed Nyakiniywa (alias Mama Leila, in possesso di sei passaporti, arrestata tre giorni dopo la pubblicazione della blacklist) i quali avrebbero strette relazioni con Kenyatta e i suoi sodali. L’ultimo episodio misterioso che riguarda Kenyatta e il traffico internazionale di droga risale all’agosto di quest’anno. Kenyatta ha ordinato di far esplodere in mare una nave con un carico di droga del valore di circa 1 milione di euro, a largo di Mombasa, per sottolineare quanto fosse decisa la sua lotto contro il narcotraffico.
La pratica, in realtà, è quantomeno inconsueta: di solito la nave attracca e solo il carico viene bruciato, anche per quantificare esattamente quanto trasportato. Perché questa scelta? I media accusano il presidente di aver messo in scena l’esplosione della nave per far approdare in tutta sicurezza il prezioso carico di eroina. La storia è rimbalzata sulle pagine dei quotidiani locali per settimane. Ma Kenyatta è inaffondabile: sopravvive a qualunque bordata interna o esterna.

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