Strade/Ways

Amos Gitai in mostra a Palazzo Reale a Milano, Sala delle Cariatidi, fino al 1 febbraio 2015 – Il cinema tra architettura e archeologia: lo spazio e la memoria in Amos Gitai

di Monica Macchi

La cosa fantastica della memoria

è il modo in cui associamo i ricordi affinché abbiano un significato intimo e personale…

poi il punto è come comunicarlo,

e io voglio farlo attraverso l’arte

e dico arte come termine generico: cinema, letteratura, arti visive e così via.

In questo senso l’artista è anche un taumaturgo.

 

Il cinema di finzione è architettonico: è un atto di simulazione

perché costruisce qualcosa che prima non esisteva,

invece per quanto mi riguarda, il cinema documentaristico è archeologico:

scava, tenta di portare alla luce strati nascosti o precedenti,

che si muovono nella dimensione della realtà.

Amos Gitai

 

15 dicembre 2014 – Dal 2 dicembre 2014 al 1° febbraio 2015, Palazzo Reale a Milano ospita Strade/Ways: una mostra-installazione creata da Amos Gitai per la Sala delle Cariatidi che attraverso fotografie, sequenze dei suoi film, dispositivi sonori e visivi, documenti e meravigliosi tappeti antichi compone uno spazio temporale dove la memoria si dipana tra passato e futuro.

L’ingresso della mostra è dedicato al film “Lullabay to my father” (presentato fuori concorso al Festival di Venezia del 2012) dedicato al padre, l’architetto del Bauhaus Munio Weinraub che costretto a fuggire dai nazisti in quanto “traditore del popolo tedesco”, si trasferisce in Palestina e svolge un ruolo decisivo per lo stile modernista ed internazionale dell’architettura israeliana.

Il film traccia il percorso di Munio dalla Polonia alla Germania, alla Svizzera fino alla Palestina in una giustapposizione di frammenti a mosaico tra avvenimenti storici e ricordi intimi dei rapporti padre-figlio e su come l’architettura forma e trasforma la società: ad esempio gli edifici dai volumi semplici e proporzionati, monocromatici, in armonia con il loro ambiente sono stati considerati un mezzo per mantenere una neutralità culturale.

Le pareti della sala diventano così uno schermo su cui proiettare fotogrammi del film che fanno da sfondo alle fotografie mentre all’interno sono state sistemate teche con libri e documenti sulle conversazione e l’amicizia tra Gitai e Gabriele Basilico sulla fotografia, l’architettura e gli scenari del film “Free Zone” a cui il Cahiers du cinéma ha dedicato un numero speciale nel settembre del 2005. Free Zone non solo rappresenta uno spazio comune e claustrofobico che delinea e insieme intrappolatre donne, una ebrea-americana, una palestinese e una israeliana ma come lo ha definito Jean-Michel Frodon, costituisce “un’esplorazione nello spazio e nel tempo, un’architettura e insieme un’archeologia di territori (geografici, temporali, biografici) le cui insondabili correlazioni costi­tuiscono la natura stessa di quel luogo fisico, umano, politico e mitologico”.

 

 

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Architettura e archeologia quindi ma anche le ferite contemporanee esaltate ed esemplificate dalla Sala delle Cariatidi che porta ancora in sé gli sfregi del bombardamento e dell’incendio del 1943 tema questo assai presenta nei lavori di Gitai a partire da “Esther” dove tra le rovine di Wadi Salib, gli attori sembrano fondersi con l’architettura, come “figure di miniature persiane” scrisse Stephen Holden mentre in altre scene, grazie alla magistrale fotografia di Henri Alekan, la stessa zona appare come una distesa archeologica di morte e distruzione in un omaggio a “Germania Anno Zero” di Rossellini definito “una vera breccia perché anche se è italiano e l’Italia è governata dai fascisti, lui va in Germania, mostra la Germania, le sue vittime, e addirittura utilizza le rovine come soggetto del film”.

Entrando nella Sala delle Cariatidi su una parete in legno creata appositamente per l’allestimento viene proiettato in loop “The book of Amos”, un cortometraggio di Gitai del 2012, uno dei 9 episodi del film collettivo “Words with Gods” (gli altri registi sono lo spagnolo Alex de la Iglesia, l’indiana Mira Nair, lo jugoslavo Emir Kusturica, il giapponese Hideo Nakata, l’argentino Hector Babenco, l’iraniano Bahman Ghobadi , l’australiano Warwick Thornton e il messicano Guillermo Arriaga, ispiratore del progetto).

L’episodio girato da Gitai è un unico piano sequenza di monologhi di alcuni attori israeliani e palestinesi che avevano già recitato in Kadosh, Kippur e Kedma e sono tutte profezie ed imprecazioni del profeta biblico Amos, contro la corruzione e le ingiustizie sociali. L’idea di usare blocchi e piani sequenza eliminando la fase del montaggio è una costante estetica (addirittura “Ana arabia” presentato in Competizione Ufficiale alla mostra di Venezia del 2013 è costituito da un unico piano sequenza di 85 minuti) dove la forma è in funzione del contenuto senza alcun intento fittizio, estetico o estetizzante ma per creare dei blocchi temporali-narrativi che si contrappongono ai “Speedy Gonzales editing”, quelle immagini frammentarie e frammentate tipiche dei moderni mass-media ma anche del cinema commerciale definito da Gitai “di una rapidità incomprensibile…e per fare un cinema non commerciale devi rallentare”.

 

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Invece “il cinema deve dare anche lezioni politiche…come l’ar­chitettura usa i ponteggi, il cinema deve includere nel racconto anche il contesto e una narrazione, senza ridurre le forme a pure illustrazioni”: in questo senso il percorso fotografico e filmico di un film non ancora girato “Carpet” (la cui sceneggiatura inedita è pubblicata nel catalogo della mostra) rappresenta un atto politico attraverso una forma artistica: il tappeto diventa la metafora della cooperazione tra le diverse comunità del Medio Oriente dove le donne musulmane tessono i tappeti nel nord dell’Iran, gli ebrei forniscono i colori e i cristiani si occupano della commercializzazione.

Sono in mostra le fotografie della sceneggiatura da Damasco a Istanbul fino a Baku e soprattutto alcuni rarissimi tappeti tra cui il persiano “Salting” su cui è ricamato il “versetto del trono di Dio”, (Corano II, 255), in un intreccio storico, culturale ma anche religioso visto che molti di questi tappeti sono stati donati dagli Safavidi Sciiti agli Ottomani Sunniti.

Ma la memoria proietta la sua direzione verso il futuro e come ha raccontato Gitai: “i miei genitori sono andati a Baalbek in Libano in luna di miele, e mi ricordo che quando ero bambino, mia madre teneva sulla mensola biglietti del treno “Haifa, Beirut”. Dato che eravamo negli anni Cinquanta e le frontiere erano chiuse, ho chiesto “Perché tenete in mostra questi biglietti del treno? E’ un paese nemico” E mia madre ha risposto: “È stato possibile in passato e potrebbe essere di nuovo possibile in futuro”.

E speriamo che questa mostra possa accrescere l’interesse verso la sterminata produzione di Gitai (che comprende anche film per la tv, installazioni video e piece teatrali) e far pensare ad una retrospettiva integrale, come quelle dedicategli a Londra, a Parigi, a San Paolo del Brasile, a Berlino, a New York , a Mosca, Tokyo e Gerusalemme.


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