Un carrello pieno di bagagli. Una donna sorridente. Un bambino piccolo stritolato dai baci del suo papà. Diritti, emozioni, ricongiungimenti
di Giulia Bondi
@gnomade
foto di Marco Garofalo
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20 dicembre 2014 – Ho conosciuto Alaa e suo figlio Manar a Malmo, in Svezia. Alaa mi sembrava uscito da un film di Emir Kusturica, con il suo volto largo, i baffi scuri e gli occhi profondi. Ancora non sapevo che era davvero uscito da un film.
Siriani palestinesi, scampati alla guerra, fuggiti attraverso il Mediterraneo, Alaa e Manar in Svezia ci erano arrivati con Gabriele Del Grande, Tareq Aljabr, Khaled Soliman Al Nassiry, Marco Garofalo e la troupe di quello che poi sarebbe diventato Io sto con la sposa, uno dei fenomeni cinematografici dell’anno.
Il film non è che sia piaciuto a tutti. Ma l’idea di disobbedire alle frontiere era grandiosa, e infatti è stata sostenuta da migliaia di produttori dal basso, in uno dei crowdfunding più fortunati della storia.
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Comunque, in Italia, Alaa e Manar non ci volevano tornare, preoccupati che il nostro paese non potesse garantire loro le stesse opportunità che avrebbero avuto in Scandinavia.
Per dire no al rimpatrio, Manar le provava tutte. Compreso dirlo in un’altra lingua, quella dell’mc’ing e del rap.
Manar se la cava bene a improvvisare parole e ritmi. Il padre lo sapeva bene, incitava il ragazzino a esibirsi, mostrava con orgoglio, dal cellulare, un giornale svedese che parlava di loro.
All’inizio mi disturbava, questo atteggiamento da babbo di Shirley Temple. Poi mi sono chiesta cosa avrei fatto io, se avessi dovuto scegliere quale dei miei figli provare a portare in Europa per sottrarlo alle bombe, e quali invece lasciare a casa.
La storia di Alaa e Manar l’avevamo raccontata anche qui, su Q Code Magazine.
Assieme a quella di altri, siriani, palestinesi, ma anche afghani e iraniani, che in Scandinavia hanno cercato rifugio. La loro storia è anche la storia delle persone che li aiutano, anche a costo di disobbedire a leggi che ritengono ingiuste.
Alla fine, Manar e suo padre, Alaa, sono stati rinviati in Italia a causa del regolamento Dublino, e sono stati accolti qui. Non esattamente quello che desideravano, ma sempre meglio delle bombe.
E poi, qualche volta, le storie hanno un lieto fine.
Ieri, sul profilo Facebook di Alaa, sono comparse due fotografie scattate all’aeroporto.
Un carrello pieno di bagagli. Una donna sorridente, con la testa coperta da un foulard beige, e un altro foulard a fantasia animalier attorno al collo. Un ragazzino spaesato, con i capelli sparati in testa con il gel. Un bambino piccolo stritolato dai baci del suo papà ancora incredulo.
Formalmente si chiama ricongiungimento familiare. Praticamente vuol dire riabbracciarsi.
E vorrei tanto che non ci fosse bisogno di dirlo, ma quando si scappa da una guerra, si ha il diritto a essere accolti. Quando si lasciano i propri familiari, senza vederli per mesi, si ha il diritto a riabbracciarsi.
Quanto sia difficile in realtà arrivare in Europa potete vederlo in questo bellissimo reportage interattivo del Guardian, se sapete l’inglese.
Ma il diritto, per esserci, c’è, lo dice la Convenzione di Ginevra sull’accoglienza dei rifugiati.
E lo dice anche il cuore, di chiunque si ricordi quanto è stato felice quando qualcuno che amava era in pericolo, e alla fine ha potuto riabbracciarlo.
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