Diario di viaggio dove finisce l’Europa, ma non inizia ancora la Russia, dove l’Ucraina si perde nel Donbass
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/12/10805622_10205385288531467_7355464163906478836_n.jpg[/author_image] [author_info]foto e testo di Teo Butturini, da Dnipropetrvosk, Dobass, Ucraina. 33 anni, da circa tre si dedica a documentare fotograficamente il mondo intorno a lui. Prima in Egitto, dove segue la rivoluzione, poi in Cina ed in Sud America. Ora si trova in Ucraina, diretto nel Donbass, per cercare di capire cosa succede in quelle aree, devastate dalla guerra che sta spaccando il paese in due. Il viaggio si può anche seguire su: http://instagram.com/teo_butturini[/author_info] [/author]
22 dicembre 2014 – La stazione di Dnipropetrvosk è buia, avvolta nelle tenebre. Le porte dell’androne gigantesco sono aperte, fuori nevica, si gela.
Quando il treno arriva al binario semideserto, con la locomotiva vecchia ed annerita, è come sfogliare un libro di storia con immagini dall’Unione Sovietica. E’ la mia macchina del tempo. Passo a fatica nel corridoio, carico dello zaino con i vestiti, di quello con l’attrezzatura fotografica e della borsa con l’antiproiettile. Poi l’infarto: ero convinto di aver preso un letto in terza classe, per affrontare il tragitto di diciassette ore, ma dove dovrei sdraiarmi c’è un tavolino. I sedili nemmeno hanno lo schienale.
Alla vista della mia faccia perplessa i miei vicini di posto sorridono, mi mostrano che basta ribaltare il piano e di colpo salta fuori la mia “cuccia”. Sospiro di sollievo, il dolore al braccio sinistro scompare immediatamente.
Così inizia la conoscenza con Alex, trent’anni da una settimana ed un lavoro nel recupero crediti, e sua moglie. Vengono da ‘Dnipro’, mi dicono versando del cognac fatto in casa da una bottiglia di coca cola: “Assaggia un po’ di SALA(lardo), è una specialità locale. E poi non si beve senza mangiare, non lo sai?!”.
Chiedono di me, dell’Italia che vorrebbero tanto visitare, e mi raccontano di loro figlio: “Nikita ha solo quattro anni, ma lo abbiamo lasciato a casa coi nonni per qualche giorno. Lei era un po’ restia, ma sai è il ‘giubileo’ [il compimento della decade] e avevamo bisogna di staccare un po’. Così siamo andati a fare una sciata sui Carpazi, conosci?”.
Continuiamo a chiacchierare del più e del meno, pian piano la conversazione si sposta sulla situazione politica qui in Ucraina. Anche loro vedono con avversione le mire indipendentiste del Donbass: “Pensa che mio fratello ha sposato una ragazza di San Pietroburgo, e ora vive lì. Ma ci sentiamo poco, e ogni volta finisce in una litigata… si beve le farneticazioni di Putin, poveraccio.”, apostrofa Alex.
E’ la propaganda, e funziona benone da entrambi i lati del fronte.
Continiuamo a chiacchierare per qualche ora, al ritmo di cognac e lardo, cognac e mandarini, cognac e cognac. Non c’è molto altro da fare, in questo limbo lanciato a una media di cinquanta all’ora attraverso la neve, ma ci si gode la cavalcata.
La notte è un incubo: il vagone balla, traballa e vibra come se da un momento all’altro dovesse deragliare, non riesco nemmeno a sentire i miei stessi pensieri. Finisco per sognare di essere su un treno sgangherato, e continuo ad alzarmi per fumare tra una carrozza e l’altra.
Rinvengo appena in tempo per piegare lenzuola e scambiare i numeri di telefono con i miei compagni di viaggio.
Il piazzale della stazione di Dnipro urla URSS, lo attraverso portando il mio carico dentro a Puzata Hata (letteralmente La Casa del Panzone, una catena di ristoranti) per mangiare dei Varenyky, una specie di ravioli, mentre aspetto una collega in arrivo da Kiev. Lei fa avanti e indietro tra qui e l’Italia da mesi, ormai, e se non fosse per lei arrivare in Donbass sarebbe stato molto più complicato. Mi presenta Dima, il nostro driver, che ci attende mentre preleviamo delle grivne, visto che in DNR i bancomat non funzionano più e le code di fronte alle banche sono immense.
Il viaggio dura cinque ore, le passiamo chiacchierando e facendo conoscenza, dato che finora io e lei abbiamo solo scambiato messaggi via Facebook. La strada corre lenta, check point dopo check point dopo check point: quattro in tutto dal lato Ucraino, tre dal lato dei ribelli.
“Non usare mai e poi mai la parola separatisti, che questi s’incazzano” si raccomanda Dima, prima di arrivare al primo posto di blocco della auto-proclamata Repubblica Popolare di Donetsk. I ragazzi in divisa sembran relativamente rilassati (ma infreddoliti), e quando scoprono che siamo italiani dicono “Toto Cotugno, Raffaella Carrà, da?!”. Forse era meglio pasta, pizza e mandolino, ma sorrido comunque.
Dopo qualche altro controllo, regalando pacchetti di sigarette per sveltire le procedure, arriviamo in una Donetsk immersa nelle tenebre: calma, tranquilla, semideserta.
Non si vedono i segni della distruzione, al buio, e te la puoi immaginare un po’ come vuoi.
La mattina,attraversando la città per andare ad Ilovaisk, mi accorgo che il centro è tutto sommato abbastanza integro, il peggio è nei quartieri periferici attorno all’aereoporto, martellati dai missili.
Nel giardinetto di fronte al teatro c’è un carroarmato della seconda guerra mondiale, su un piedistallo. Ci son molti monumenti così in giro, sembra quasi che la memoria della guerra fosse qui già da tempo, ben prima dell’inizio del conflitto, e ora stia solo risorgendo dalla tomba.
Insieme a dei giornalisti locali e russi siamo diretti ad un meeting con Zakharchenko, il primo ministro locale, che ad agosto è succeduto all’advisor russo Borodai.
Moltissimi edifici di questa cittadina, a cinquanta kilometri da Donetsk, portano le cicatrici della guerra. Per le strade cumuli di spazzatura, la raccolta qui è impossibile e rischiosissima. Ci sono cani e gatti ovunque, tutti con le orecchie basse, terrorizzati dalle bombe che fino a ieri son piovute un giorno sì e l’altro pure. Questo è stato il teatro di una delle peggiori stragi dall’inizio del conflitto. Il tour fa un primo stop in una chiesa ortodossa, lievemente danneggiata dai bombardamenti, poi in una biblioteca, dove assistiamo ad un siparietto surreale: un gruppo di bambine canta “O Sole Mio” e Jingle Bellss. Attorno a loro i militari della scorta, in divisa da forze speciali, con in mano dei mitra giganteschi. Ce ne andiamo presto: non c’è molto di interessante da vedere qui, se non pura propaganda.
Trascorriamo il pomeriggio al palazzo amministrativo a recuperare gli accrediti stampa che ci permetteranno di girare in tranquillità. Nelle vetrine al settimo piano, di fronte alla scrivania della funzionaria, fanno bella mostra cappellini e tazze e sciarpe della Novorossiya.
Finiamo la giornata al Banana (un bar-ristorante) mangiando borsch e sandwich al pollo, mentre al tavolo di fronte c’è un gruppo di militari intenti a fumare sheesha. I loro AK sono appoggiati allo schienale del divano, nonostante i segni di divieto all’ingresso.
La mattina dopo andiamo in un quartiere fantasma, demolito dai grad e dai mortai, a visitare un ospedale.
All’ingresso un’anziana signora ci parla di suo figlio ferito, che ha subito quattro operazioni. Nel bel mezzo dell’ultima è pure saltata l’elettricità, ma per fortuna ora è andato tutto bene e ora il ragazzo dovrebbe essere fuori pericolo. Lei invece se la passa peggio: le pensioni qui non arrivano più, da quando Kiev le ha congelate. Ironico pensare che ora i risparmi di questa gente vengono probabilmente usati per comprare le bombe che li uccidono, trovare di che mangiare ora è una sfida quotidiana.
Scendiamo le scale, nel bomb shelter incontriamo una TV crew che registra interviste ai rifugiati (o IDP, per meglio dire). Il giornalista indossa il giubbetto antiproiettile per far scena davanti alle telecamere, mentre i ragazzini fan carriarmati con gli origami. Seduta su un letto una bambina gioca con la sua bambola, sorride come se fosse tutto normale. “Ha sei anni e non son sicura che capisca bene cosa succede, ma riconosce il rumore dei grad da quello dei mortai…” spiega la madre.
Chissà lei e il fratello più grande, come ricorderanno questi periodi tra qualche anno. Mi vengono in mente i racconti dei miei nonni.
Pomeriggio, direzione Savur-Mohyla. La strada fatta a pezzi dai mortai, tank ribaltati e aperti come scatole di sardine. Sul metallo arrugginito ci sono buchi grandi come noci, souvenir lasciati dai cannoncini da 30mm.
Intorno neve e gelo e casermoni da regime comunista, squadrati ed inquietanti.
Quando arriviamo a destinazione non si vede nulla, la nebbia si taglia col coltello e le foto le facciamo giusto per non dirci che abbiam passato inutilmente un’ora e mezzo in macchina. Non che ci sia molto da vedere, comunque: il villaggio è andato per buona parte in fiamme, e le case rimaste in piedi sono deserte.
La battaglia qui è stata ferocissima, ha lasciato i segni sulla strada, tra le case, e anche dentro alle persone che se ne son andate. Probabilmente sono tutti sotto terra ora: qualcuno nei bomb shelter, qualcun altro in una cassa. Difficile dire chi se la passi meglio.
I colpi di mortaio hanno sfigurato anche le facce dei pannelli messi a memoria di un’altra guerra, dimenticata troppo tempo fa, i cui fantasmi ora si prendono la rivincita, ricordandoci che chi scorda la follia del passato è destinato a ripeterla all’infinito, come in un supplizio infernale.
Stiamo per andarcene, quando arriva un soldato con dei fiori in mano. Ci passa davanti come se nemmeno esistessimo, singhiozzando. Di fronte a quel che rimane di un bunker sulla cima della collina lui casca in ginocchio,posa i garofani rossi e piange gli amici morti ad agosto. Quel suono non viene dai polmoni, ma dritto dalla pancia, è devastante. Torniamo verso casa in silenzio.
La sera, in appartamento, scorro le foto dei villaggi fatti a pezzi da questi bambini cattivi che giocano alla guerra, e penso alle babushke che non c’entrano niente in questa follia e aspettano in casa che tutto finisca presto. Poco importa come, basta che lì fuori la smettano. Poi ripenso al soldato: forse in guerra non ci sono altro che vittime, almeno tra chi la vive nel quotidiano. Non so, conoscere la risposta non cambierebbe comunque nulla di quel che succede.
Alle sei di mattina stiamo già sfrecciando sulla stessa striscia asfalto di ieri, butterata dai colpi di mortaio come cicatrici di acne juvenilis o verruche, diretti verso la prossima frontline silenziosa. Sperando che tutto non ricominci, almeno non mentre siamo lì.
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