Futuro, università, ricerca

Dalla riforma Gelmini ai sistemi di valutazione, dalle condizioni dei precari al futuro dei dottorandi, intervista a tutto tondo con il professor Alberto Baccini di Roars

Ho un amico con due lauree magistrali, una in Biologia, l’altra in Chimica e Tecnologie farmaceutiche. Per passione, per vivere e per mantenersi gli studi, insegna musica. Un giorno, parlando con un professore del suo futuro come ricercatore universitario, quest’ultimo gli disse: «Se vuoi lavorare in università, abituati all’idea di dover mantenere un tenore di vita più basso di quello che hai ora».

L’Italia è in crisi (lo sappiamo tutti) e questa avvolge le azioni e i pensieri in un’atmosfera ovattata, ma persistente, di impotenza, insofferenza, indifferenza e ignoranza. Ma perchè? Perchè la crisi è certamente economica, ma prima di tutto culturale.

Approfondiamo l’argomento università e ricerca con Alberto Baccini, professore dell’Università degli Studi di Siena, tra i fondatori e membro della redazione di roars.it, associazione, network e spazio di incontro nato perseguire «finalità di carattere culturale, relative in particolare alle politiche della ricerca, ai sistemi di valutazione, alla formazione terziaria». Università e ricerca, ma non solo.

Come nasce ROARS e di cosa si occupa?

Il 30 settembre 2011 alcuni dei  redattori attuali si sono ritrovati a Milano per discutere e ascoltare relazioni sul tema della valutazione della ricerca. L’incontro in realtà è stato organizzato con lo scopo di avviare la costruzione di un network di soggetti che lavorano nell’università e nella ricerca: nasce, così Roars. Tutti noi eravamo fermamente convinti che fosse utile conoscersi e mescolare le esperienze di persone appartenenti ai più diversi settore e alle aree più differenti, superando gli steccati disciplinari che negli ultimi decenni hanno contribuito non poco a indebolire la voce di chi ha a cuore il sistema della ricerca nazionale. Dall’incontro è emersa l’idea di proseguire nella costruzione di questo network informale, con l’obiettivo di intervenire in modo credibile e competente in una discussione che abbia per interlocutori coloro che devono gestire il processo di trasformazione dell’università italiana e, specialmente, le forze politiche che si candidano a governare in futuro il Paese.

Scrivete «Dobbiamo ricominciare a parlare alla politica e alla società, demistificando le tante falsità che sono state sparse senza mai rinunciare a farci promotori di esigenze di cambiamento e di miglioramento del sistema». Cosa significa? E quando i professori hanno smesso di parlare alla politica e alla società?

È accaduto tanti anni fa. L’accademia italiana è molto autoreferenziale e tende a non occuparsi di ciò che accade attorno a lei. In questo spazio vuoto si muovono solo i professori/editorialisti del Corriere della Sera e de La Repubblica. Roars nasce dall’esigenza di mettere in campo una voce diversa, nasce dall’idea di dire che molte delle cose che sono avenute negli ultimi 15 anni sono tecnicamente sbagliate oppure basate su dati errati o falsificati (parlo, per esempio, della riforma Gelmini). La riforma Gelmini è stata calata sulla testa dell’università senza una partecipazione attiva da parte di chi nell’università e nella ricerca lavora e soprattutto nel silenzio quasi assoluto di chi vi lavorerà per i prossimi anni. Ma ad essa si sono accompagnati tagli drastici e sistematici al finanziamento dell’università e della ricerca.

Come siamo arrivati a questo punto? Perchè nessuno si è opposto con forza?

In realtà, i ricercatori ai tempi della riforma Gelmini sono saliti sui tetti. E, con loro, ci è salito, per esempio, anche il segretario del PD. Ma, nonostante tutto, i ricercatori sono stati lasciati soli e la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane si è schierata dalla parte della riforma Gelmini, così come il Corriere della Sera e La Repubblica. È evidente che la riforma sia il frutto di un certo modo di pensare e noi vorremmo portare a riflettere su questo.

Le conseguenze di «questo modo di pensare» sono drammatiche per i giovani, per coloro che potrebbero cambiare il mondo…

Chi vuole far ricerca oggi in Italia e non è già strutturato non può farlo. L’unica soluzione è andare all’estero. L’Italia non è un Paese per giovani, perlomeno nella ricerca. Il vero problema è che stiamo perdendo una generazione intera (e forse anche più di una) di futuri ricercatori per i quali non c’è neppure la speranza di trovare un posto in università, nemmeno da precario. In questa situazione i precari si lamentano della loro situazione, ma neo laureati e dottorandi hanno la strada completamente chiusa.

In quest’ottica, che succederà?

Diventeremo, secondo la ricetta dell’economista Luigi Zingales, «un Paese di camerieri»,  con tutto il rispetto per questa professione. Stiamo rinunciando a fare ricerca e l’Italia sarà la Disneyland d’Europa, uno stato in cui si va avanti con il turismo. È da 15 anni che ci dicono «che studiare non serve», che i «laureati non trovano lavoro», che «i giovani sono choosy». Ci stanno insegnando che per vivere bisogna fare un altro mestiere e che non bisogna credere nell’università.

Cosa ci dice dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (Anvur) e del suo progetto di Valutazione della Qualità della Ricerca?

Nelle mani dell’agenzia ministeriale Anvur, la valutazione della qualità della didattica e della ricerca è diventata un mostro burocratico! La Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr), per esempio, è uno strumento che non ha eguali nelle pratiche internazionali e, su Roars, abbiamo scritto incessantemente criticandolo e suggerendo soluzioni alternative. Ci siamo scontrati con un muro di gomma: Anvur è autoreferenziale. Anche se si presenta come un ente trasparente e aperto al confronto, non è possibile alcun dialogo. In realtà sceglie l’agenzia con chi confrontarsi e lo fa con chi l’appoggia.

Si possono fare dei paragoni con i sistemi di valutazione di altri stati?

La letteratura internazionale, su questi temi, afferma che i meccanismi per la valutazione adottati nella Vqr non funzionano, in quanto sono già stati sperimentati e poi abbandonati in altri Paesi, in Australia, per esempio. L’Italia è arrivata dopo, in ritardo sull’utilizzo di questi metodi e dall’esperienza degli altri Paesi avremmo potuto trarre un esempio, un vantaggio. Invece, è accaduto il contrario. Le ripercussioni sono negative e i danni cominciano già a vedersi. Faccio un esempio: la valutazione punisce i fannulloni, ovvero chi non ha scritto nulla, non colpendo però il singolo, ma l’intero dipartimento nel quale lavora. Così la soluzione sarà semplicemente quella di mettere i nomi di questi individui su articoli scritti da altri, (fenomeno noto con il nome di ghost autorhip o guest autorship). Questo sistema, ovvero il metodo degli “autori fantasma” assicura che alla prossima Vqr non ci saranno autori silenti e nessuno sarà penalizzato.

Qual è l’obiettivo di ROARS per il fututo? Quali sono le vostre proposte?

Allargare il dibattito, far passare l’idea che università e ricerca sono indispensabili per lo sviluppo economico, civile e culturale del nostro Paese. L’università deve essere aperta a tutti, non solo ai ricchi. Deve vincere un sistema di borse di studio e di diritto allo studio più efficace di quello che abbiamo ora. Inoltre, un obiettivo condiviso da tutta la redazione è  mettere fine al “meccanismo di valutazione” attuale, ovvero un sistema diretto e controllato da un piccolo gruppo di persone scelte direttamente dalla politica e tecnicamente inadeguato: ripartiamo dalla discussione pubblica su cosa e come si valuta nei Paesi che ormai da decenni lo stanno facendo.

Quale consiglio si sente di dare a quei ragazzi che non vogliono andare all’estero?

I giovani devono seguire la propria vocazione e fare ricerca nel modo più libero possibile, senza adeguarsi a regole burocratiche imposte, portando avanti idee nuove.

Ma si può far ricerca in maniera libera?

Non è facile, ma esistono meccanismi di diffusione della conoscenza che permettono di far passare delle idee al di fuori dei canali standard. Parlo del movimento Open Access per esempio, oppure della possibilità di autopubblicare articoli su blog e diffonderli su canali alternativi.

Roars ha dei rimpianti?

Si, abbiamo difficoltà ad intercettare gli studenti universitari. Spesso affrontiamo temi “da professori” o “da accademici” e, forse per incapacità culturale, non riusciamo ad aprirci a quel pezzo fondamentale dell’università che sono gli studenti. Spero che riusciremo a coinvolgerli nei prossimi anni.

 

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