Dottore di ricerca in Filosofie e Teorie Sociali Contemporanee, DEA in Storia Comparata Contemporanea, ricercatore presso il CEFID-UAB, condirettore della rivista “Nazioni e Regioni”, sta preparando una seconda tesi di dottorato presso l’Universitat Autònoma de Barcelona. Studia la costruzione, codificazione, manipolazione, semantizzazione e uso delle identità stato-nazionali, regionali e nazional-periferiche tra Spagna e Francia, nella seconda metà del XX secolo. Abruzzese, cresciuto a Bari, vive a Barcellona.
25 dicembre 2014 – Ogni appartenenza nazionale, sia essa stato-nazionale sia essa nazional-periferica o sub-statale, ha i propri riti, simbologie e miti. Attorno questi spesso si sviluppano o presentano idee, progetti, dichiarazioni più o meno importanti nel corso del cosiddetto anno politico. Se nel caso catalano questo ruolo è ricoperto dalla Diada dell’11 settembre, per la politica spagnola i mesi dell’autunno si dipanano ultimamente tra rintuzzare i progetti politici sostenuti dalle oceaniche manifestazioni catalane dell’11 settembre degli ultimi tre anni e valorizzare al massimo le proprie ritualità: il Día de la Hispanidad del 12 ottobre e il Día de la Constitución del 6 dicembre.
La Costituzione spagnola, un testo elaborato nel 1978, durante la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia liberale, fu frutto del suo tempo e delle condizioni oggettive di quel momento storico e delle sue contraddizioni ma oggi ha assunto probabilmente un valore simbolico, in negativo come in positivo, che non aveva al momento della sua approvazione.
Per quella che è stata fino ad oggi l’opinione dominante e ritualmente accettata in Spagna, la Magna Carta sarebbe la più alta espressione di un processo di transizione politica esemplare e del ritrovato consenso nazionale tra élite politica franchista e opposizione.
Senza entrare nel merito di tale questione, rispetto alla quale ci sono studi e interpretazioni per tutti i gusti, anche se non tutte costruite con lo stesso rigore scientifico, la Costituzione quindi rappresenta una sorta di mito fondazionale delle Spagna democratica del dopo franchismo. Ma rappresenta anche altre cose, spesso in contraddizione tra loro: la possibilità di uno stato plurinazionale e federalizzante, la realtà di uno stato-nazione con un’organizzazione sub-statale asimmetrica o la definizione della nazione come qualcosa di previo alla Costituzione stessa. A questi tre elementi, sostanzialmente incompatibili, aggiunge un ulteriore grado di complessità il tipo d’interpretazione che gli attori e i partiti al governo di volta in volta ne possano dare.
A prescindere, però, dall’interpretazione delle «sacre scritture civili», esiste un elemento indiscutibile. La Costituzione spagnola, come del resto buona parte delle costituzioni degli stati-nazione che la circondano, è fatta per garantire l’indivisibilità della «patria costituzionale».
Che questa «patria costituzionale» abbia origine da una determinazione esterna alla costituzione stessa, come quella di considerare a priori la Spagna come una nazione e non semplicemente uno stato, aggiunge quel punto di complessità che impedisce che possa separarsi concettualmente una cosa dall’altra. Affermare l’esistenza, come fa l’Articolo 2, di nazionalità e regioni e relativi diritti serve a poco se, nello stesso articolo, si afferma l’indissolubile unità della nazione spagnola, patria indivisibile, ecc… Diciamo che un elemento disattiva l’altro, quello più importante e solenne (la nazione spagnola) riduce l’altro (il diritto delle nazionalità) a una sorta di elemento subalterno e decorativo.
Questa Costituzione è oggi messa in discussione da due tipi di questioni. Da un lato, dal movimento per l’autodeterminazione in Catalogna e, in minor misura, Paesi Baschi e, dall’altro, dalla crisi generale che vive oggi il sistema politico frutto della transizione, all’incrocio tra crisi economica, crisi di rappresentanza e corruzione del ceto politico e imprenditoriale. Inoltre, dinnanzi alla più volte reiterata intoccabilità della Costituzione, questa veniva riformata consensualmente da PP e PSOE, con Zapatero al governo, nel giro di poche settimane nel 2011, per inserire non già una maggior tutela dei diritti sociali alle porte della crisi bensì per fare della stabilità di bilancio un principio superiore e intoccabile, con la riforma dell’Articolo 135. A margine di questa digressione, è significativo che la volontà più volte espressa di esercitare il diritto di autodeterminazione, ovvero poter decidere tra secessione, riforma territoriale e statu quo, da parte di ampi strati maggioritari della popolazione catalana, abbia allo stesso tempo scatenato una crisi istituzionale in Spagna e contribuito ad aprire le porte al dibattito attorno alla riforma costituzionale, cosa impensabile solamente un paio di anni fa. In realtà, la popolarità della Costituzione è in netta caduta dal 2008, probabilmente anche per altri fattori. Ad esempio, è normale che le giovani generazioni che non la votarono e non parteciparono alla vita civile di quel momento fondativo la vivano con maggior distacco.
In ogni caso, è significativo che, secondo i dati del CIS (Centro de Investigaciones Sociológicas), dal 1998 al 2012, la maggioranza dei catalani cominci progressivamente a voltare le spalle al testo costituzionale, con un’accelerazione appunto dal 2008 in poi; il grado di soddisfazione passa dal 55.8% al 16,3% mentre la percentuale degli insoddisfatti sale dal 35,8% al 70,8%, quasi seguendo le cifre di coloro che sono a favore del diritto all’autodeterminazione – che, lo ripetiamo, non è la stessa cosa che essere indipendentisti tout-court. E questo nella regione spagnola che più voti favorevoli emise in occasione del referendum costituzionale del 1978. Nell’insieme della Spagna (Catalogna inclusa quindi) questa inversione di tendenza si ha solo negli ultimi quattro anni e nel 2012 i soddisfatti erano scesi dal 62,2% al 37,4% mentre i critici erano passati del 28,9% al 51,5%. Tutto ciò potrebbe voler dire che dai tentativi di ricentralizzazione dei governi di Aznar, passando per il fallimento della riforma dello Statuto di Autonomia, i catalani hanno smesso di considerare la Costituzione spagnola come un ambito funzionale agli interessi della cittadinanza. Inoltre, è possibile osservare che, certamente per altri motivi, la Costituzione ha perso l’appoggio di ampi strati della popolazione spagnola. A tutto ciò si aggiunge un altro sondaggio reso pubblico il 6 dicembre, stavolta riguardante l’opinione dei baschi circa l’autodeterminazione e l’indipendenza. Per la prima volta è in testa ai sondaggi l’indipendenza come opzione diretta, con il 39%, seguita dai contrari con il 29%, dagli indecisi con il 20% e dagli astenuti con 12%. Se andiamo a osservare il numero dei favorevoli alla celebrazione di un referendum simile a quello che si rivendica in Catalogna, le percentuali balzano fino al 74%, con solo un 16% di contrari.
Sarebbe a questo punto banale affermare che la Costituzione, come cardine e sintesi della legittimità e legalità statale, abbia per lo meno perduto legittimità. È paradossale che, probabilmente, la soluzione di questo problema stia venendo proprio (anche se involontariamente) dall’indipendentismo catalano. Si tratta, lo ribadiamo, della dimostrazione del fatto che l’attuale crisi nazionale spagnola va letta in termini (diciamo) post-nazionalisti.
Infatti, oggi il centro del dibattito non è tanto se la Catalogna, o nel caso i Paesi Baschi, possano diventare ciascuno uno stato indipendente separato dalla Spagna, bensì se baschi e catalani hanno diritto o meno di decidere circa il proprio futuro. Ciò provoca una divaricazione tra la legittimità civica e la legalità costituita che probabilmente aiuterà la Spagna a riformare o riscrivere la propria Costituzione. Ovviamente, che la questione catalana comporti una crisi definitiva o una ridefinizione della Spagna attuale, molto dipende dalle capacità che avranno in questo senso gli attori politici e la società civile spagnola.
Per il suo valore di mito fondazionale e per le circostanze in cui cadeva anche quest’anno, il Día de la Constitución è stato il momento in cui gli attori politici spagnoli hanno fissato quelle per il momento sono le rispettive posizioni. Oltre la ritualità della cosa, mai come in questo momento la questione della riforma della Costituzione era stata così presente nel dibattito politico. A questo ha certamente contribuito l’erosione di legittimità nei confronti della legalità che il processo catalano sta supponendo, aprendo (magari involontariamente) uno spazio di discussione sulla Costituzione che la sinistra spagnola da sola non sarebbe mai riuscita ad aprire, un po’ per mancanza di convinzione un po’ per assenza di spazio politico reale.
È estremamente significativo che i due quotidiani con maggior capacità di creare opinione all’interno del paradigma dell’unità nazionale spagnola, “El Mundo” a centro-destra ed “El País” a centro-sinistra, siano sostanzialmente favorevoli a un processo di riforma costituzionale.
Se “El País” svolge un ruolo abbastanza limpido di appoggio esterno al PSOE, sorprende invece che “El Mundo”, a volte più a destra dello stesso PP ma capace di fiutare i cambi di vento, abbia dedicato l’editoriale del suo direttore del 7 dicembre ad appoggiare l’ipotesi della riforma (Casimiro García-Abadillo, Un nuevo impulso político: la reforma de la Constitución, “El Mundo”, 7/12/2014, p. 3). A differenza di altri quotidiani della stessa area, ha anche riservato al tema, esattamente come “El País”, una serie di approfondimenti, pareri di esperti, interventi in profondità, note di costume, ecc… Lo stesso quotidiano, vicino all’italiano “Corriere della Sera”, insinua nelle pagine interne che tutto resterà bloccato fino a fine legislatura e che solo dopo (probabilmente in seguito alla quasi certa perdita della maggioranza assoluta) il partito di Rajoy aprirà all’ipotesi della riforma. Fino a quel momento la posizione del PP è quella di una chiusura che lascia presagire che, in un momento di estrema difficoltà (ideologica, valoriale, penale e di credibilità) il partito che ostenta la maggioranza assoluta a Madrid stia cercando (o abbia già trovato) nella difesa ad oltranza della Costituzione e dei valori della Transizione un’ancora di salvezza, qualcosa a cui aggrapparsi. Per il momento il discorso ufficiale del PP è quello che la Costituzione non va riformata bensì rispettata e difesa. Cosa che si spiega in maniera abbastanza elementare. Infatti, la verità sta nel suo esatto contrario. Cioè, la Costituzione andrebbe difesa perché è questa a garantire per il momento, attraverso il suo articolato e il suo ruolo di norma superiore, l’unità nazionale spagnola, ovvero l’esistenza stessa della nazione o patria indivisibile di tutti gli spagnoli, secondo i gusti ideologici.
Trattandosi di questioni di una certa serietà che necessitano conoscenza e non solo bella presenza mediatica, l’esposizione di una posizione articolata da parte del PP non è stata affidata alla rampante vice di Rajoy, Soraya Sánchez de Santamaría, bensì a Pedro Gómez de la Serna, portavoce del partito all’interno della Commissione Costituzionale del Congresso (il Parlamento spagnolo). Questi adduce come motivo essenziale la presunta slealtà del PSOE in materia, considerando che l’opposizione pur di guadagnare posizioni per vincere le prossime elezioni politiche sarebbe disposta a creare una situazione ingovernabile e caotica che, inoltre, non produrrebbe alcuna riforma stabile e duratura. In realtà, il fatto che un partito come il PSOE e un quotidiano come “El Mundo” abbiano preso una posizione favorevole alla riforma si può riassumere, citando ancora una volta il direttore del quotidiano o anche il socialista Antonio Pradas, Segretario per la Politica Federale del PSOE (il partito ha un’organizzazione interna formalmente federale), come la necessità di dare indirettamente una risposta alla crescita dell’indipendentismo in Catalogna. Ora, Pradas e il direttore de “El Mundo” certo non concordano sul contenuto dell’eventuale riforma ma capiscono che solo un rinnovato patto civico può salvare la Spagna da se stessa. Anche altri quotidiani entrano in questo gioco e lo fanno, come “ABC” e “La Razón”, per sostenere in modi diversi la linea del PP. Il secondo, celebre per avere fonti spesso vestite in tuta mimetica, ha titolato il 6 dicembre in copertina che Caamaño, Iceta y Chacón urden el texto de la reforma del PSOE. Abbiamo scelto di non tradurre il titolo per conservare intatta tutta la carica semantica del tipo di vocabolario usato, dato che il verbo urdir richiama la messa in atto di una macchinazione per la consecuzione di fini oscuri e pertanto di censurabili.
È singolare, o forse no, che tutti i mezzi di opinione del sistema politico-mediatico vigente stiano insistendo sugli stessi contenuti e riferimenti. Infatti, se il PP e i giornali che lo appoggiano difendono l’intoccabilità della Costituzione per il suo valore (anche) di simbolo del cosiddetto consenso della Transizione, allo stesso paradigma fa appello un’analisi di Joaquín Prieto su “El País” (7/12/2014, p. 19) che fa appello direttamente al mito dello spirito negoziale del 1977-78. Sulla stessa linea l’editoriale redazionale del giorno prima (Sin miedo al cambio, “El País”, 6/12/2014, p. 34) affrmava che, in primo luogo, «è necessario trovare uno spazio per i cittadini della Catalogna che sono contrari all’avventura indipendentista ma che non si riconoscono nello ‘statu quo’» e che, in secondo luogo, «il vantaggio di una riforma costituzionale è che obbliga i partiti a un certo grado di consenso: un valore che bisogna attualizzare come strumento delle grandi decisioni in democrazia». Detto in altre parole, l’ipotesi della riforma costituzionale, più che una funzionalità rigenerativa o costituente, sembra avere una finalità di ricostruzione nazionale del tessuto politico (a questo serve l’appello al consenso tra partiti) e di rafforzamento attraverso una buona manutenzione della diga sulla quale l’unità nazionale spagnola di arrampicando. Non si spiegherebbe altrimenti la dichiarazione, tra le tante altre, fatta dal portavoce per le questioni costituzionali di Podemos, Juan Carlos Monedero, secondo il quale il suo partito e la relativa proposta di nuova Costituzione sarebbero la miglior garanzia del non smembramento della Spagna.
Entrando nel vivo delle prime proposte di riforma, sempre nella misura del possibile in un momento così iniziale di quella che sarà una lunga polemica tra partiti, è necessario fare due puntualizzazioni. Da una parte, vi sono coloro che sono a favore di una riforma e, dall’altra, coloro che scommettono per l’apertura di un processo costituente. Inoltre, alcuni propongono l’istaurazione di un sistema federale mentre altri vorrebbero operare un processo ricentralizzatore. Tra questi ultimi vi sono dei nuovi partiti che potremmo definire civico-giacobini, come Unión Progreso y Democracia (UPyD) e Ciudadanos (Cs), che intravedono un processo di recupero di competenze da parte dello Stato rispetto alla devolution progressiva rappresentata dallo Stato delle Autonomie. In questo caso, le riforme proposte sarebbero comunque minime. Tra coloro che scommettono per un’ipotesi che possiamo definire federale solo dal punto di vista discorsivo, dato che se ne vanno conoscendo i particolari con il contagocce, c’è il PSOE, partito fino a poco tempo fa letteralmente ostaggio del mito della transizione e della sacralità civica del testo costituzionale. Sarà interessante scoprire fino a che punto la prima autentica proposta federalista, fatta un anno fa dal think tank dei socialisti catalani (di cui abbiamo già parlato nei precedenti interventi, qui e qui), sarà accolta, ridefinita o semplicemente ignorata.
Per il momento sappiamo, sempre per bocca di Antonio Pradas, che il PSOE proporrebbe di blindare alcune competenze, riformare il Senato come una Camera delle Autonomie (ovvero dei governi regionali sub-statali) e il riconoscimento costituzionale esplicito delle singolarità esistenti, come l’autonomia fiscale basca e navarra, il regime speciale insulare e la competenza unica della Generalitat rispetto alla legislazione sul catalano. Questa riforma però chiuderebbe, da parte socialista, il percorso di federalizzazione dello Stato, senza permettere in futuro il riconoscimento di altre e future singolarità, almeno fino alla prossima crisi politico-istituzionale. Il nuovo sistema, a quanto pare, nascerebbe senza possibilità di sviluppo, com’è comunque l’attuale, come un pacchetto già chiuso e definitivo.
I problemi in questo caso sono già molti, dato che lo stesso PSOE non ha intenzione di mettere in discussione la garanzia dell’ufficialità prioritaria del castigliano su tutto il territorio dello Stato-nazione né ha intenzione di rendere co-ufficiale le altre lingue almeno in quella che dovrebbe trasformarsi in Distretto Federale, Madrid. Lasciando da parte le esternazioni di Podemos, che come per molte altre questioni non ha ancora spiegato forse nemmeno al suo interno cosa vuole o può fare, l’unica formazione che rivendica l’apertura di un processo costituente, la costruzione di uno stato federale e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione è Izquierda Unida (IU).
Ma le questioni oggetto di riforma non si limitano alla relazione centro/periferia e stato/nazioni o stato/regioni. Sul tavolo, in un contesto di crisi economica, disoccupazione e generale e progressiva disperazione, vi sono anche questioni come l’ampliamento o restrizione dei diritti sociali e del welfare o la crisi della monarchia. Dinnanzi a un panorama di frammentazione della rappresentazione politica degli spagnoli e lo stato avanzato in cui (comparativamente) si trova il processo costituente catalano, scrivere una nuova Costituzione per la Spagna sarà molto complicato, un processo costituente molto rischioso e con tutta probabilità finirà per prevalere il pragmatismo della via riformista rispetto a quella costituente o, come alcuni la chiamano suggestivamente, di rottura. D’altro canto, i meccanismi di riforma della Costituzione del 1978 sono specialmente articolati e complicati. Per la Spagna non si approssimano certo tempi facili e a Barcellona la politica potrebbe andare più veloce di quanto la legalità vigente possa sopportare.
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