Zeman esonerato a Cagliari. Neanche l’isola è riuscita a far rivivere la magia del boemo
a cura di Christian Elia
@eliachr
26 dicembre 2014 – Da Cagliari il continente sembra lontano. Perché è come se sull’isola il tempo, i valori, le idee abbiano un’altra velocità, un altro sapore. Quale luogo migliore, sulla carta, per un eretico? Perché Zdeneck Zeman, in fondo, è un eretico.
In passato li bruciavano sul rogo, ne impedivano la circolazione delle idee, mettevano all’indice i loro libri. Ecco, senza esagerare, tutta la carriera del boemo è il racconto di un’eresia, degna di un romanzo di WuMing, di un racconto di Umberto Eco, di un testo di Sebastiano Vassalli.
Zeman ha attraversato questo Paese e il suo mondo del calcio con la sigaretta in bocca, stropicciato come gli eroi solitari, un po’ commissario da romanzo noir un po’ cavaliere. I toni da Savonarola no, perché una voce troppo rauca lo renderebbe grottesco, ma la durezza delle parole si, come un Clint Eastwood dei tempi di Sergio Leone.
È arrivato l’ennesimo esonero. Dopo la Roma, il grande amore della sua vita, anche il Cagliari. Sembra di rivivere il triste declino seguito al post prima esperienza con la Roma: Fenerbache, Napoli, Salernitana, Avellino, Lecce, Brescia, Stella Rossa Belgrado. Lo davano per morto, ormai, smarrito alla periferia del calcio.
Si è rialzato: Foggia, Pescara. Stagioni esaltanti, tornando al top: la chiamata della sua Roma. Ma la magia non si scatena più sul campo, come ai tempi di Zemanlandia, quando un Foggia di ragazzini ha incantato il mondo. E poi Lazio prima e Roma poi, eresia delle eresie, che in pochi si possono permettere.
Ma lui è differente: chi può, nel calcio, non vincere mai ed essere amato come lui? La sua bacheca è il racconto di un sogno interrotto: un campionato di C1 con il Licata, due campionati di serie B con Foggia e Pescara. Poco, troppo poco per uno che ha dato spettacolo in tutti gli stadi d’Italia. Uno che ha sempre voluto che le sue squadre affrontassero a viso aperto l’avversario.
Solo che a un certo punto, nel confine sottile in cui si perdono molti, quello tra persona e personaggio, Zeman si è come ingrigito. Le sue denunce sull’abuso di farmaci nel calcio sono un problema, perché ha ragione. Le sue dichiarazioni contro la sudditanza psicologica degli arbitri verso i potenti, sono un problema. Perché ha ragione.
Solo che fino a quando a tutto questo si affiancavano le sovrapposizioni ubriacanti dei suoi terzini, i tagli in area delle ali d’attacco, le geometrie dei centrali, era un altro giocare. Come se in un Paese come questo se non vinci non puoi parlare.
Zeman, in fondo, ci parla di noi. La furiosa reazione di Luciano Moggi contro la sua deposizione in tribunale, al tempo di Calciopoli, ci dimostra una dolorosa verità: la nostra è una cultura che mette la vittoria – con qualsiasi mezzo – prima dei valori. Il dirigente corrotto e corruttore, che gli urla «Tu non hai mai vinto niente» è un ritratto gelido di una certa italianità. Non conta come, conta vincere.
Il berlusconismo, in questo, è filosofia di vita. Ha successo, non è importante come. Ha denaro, è ricco, quindi è vincente. È furbo, come complimento. Ecco, ringraziamo Zeman. Perché è arrivato qui dalla Cecoslovacchia, per attraversare venti anni di vita di questo Paese, con una sigaretta in bocca, a ricordarci che non cambieremo mai, fino a quando i fini giustificheranno i mezzi.
Anche suo malgrado, Zeman è un simbolo. Degli ultimi che credono nella giustizia, che vogliono vivere senza paura. Un simbolo suo malgrado, non a caso poi il boemo non è uomo da dichiarazioni politiche o da vistose prese di posizione fuori dal campo. È come un monito, un silenzioso promemoria, un ritratto che ti segue con lo sguardo quando ti muovi in casa. E ti fa sentire in colpa. Allora lo insulti, lo sbeffeggi, gli manchi di rispetto. Solo perché ti ricorda che potresti essere migliore; e non gli perdoni proprio questo. Grazie boemo, per la tua coerenza e il tuo modo unico di perdere e di apparire comunque migliore di chi ti vinceva attorno.
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