La colonna destra dei siti mainstream italiani è il trionfo dei click e la morte del contenuto in rete. Dai castori che ballano alle anatomie dei corpi esibiti in finti servizi rubati.
Q Code Mag affronta la sonnolenza postprandiale che caratterizza alcune date clou di queste feste, o il senso dilatato delle giornate natalizie e di inizio anno, con una carrellata di consigli fra lettura, video, cinema, facezie o spunti per svuotare la scatola cranica. O riempirla di contenuti di quel bellissimo concetto dei nostri avi, che veneravano l’otium come occasione di crescita personale
di Lorenzo Bagnoli
@lorenzo_bagnoli
29 dicembre 2014 – Lotta di classe di Ascanio Celestini andrebbe letto a mezza voce. Per sentire le interiezioni che si ripetono, gli epiteti che condannano le grigie esistenze dei protagonisti ad una parola, le sgrammaticature romanesche che riproducono la precaria galleria umana che abita i piani di un mega call center sul Grande raccordo anulare.
È un libro teatrale, ovviamente. Un libro ruvido, a volte fin disturbante per quanto sia sgraziato nello scaraventare in faccia le miserie delle vite dei quattro protagonisti: i due fratelli Salvatore e Nicola, poi Marinella e la signorina Patrizia. Tutte le storie sono prese dalle vicende del collettivo precari Atesia. Le vicende del libro si attorcigliano attorno al luogo della perdizione precaria, il call center, e ad un condominio di periferia. Nonostante l’assenza (o la cecità) dei padri, nonostante la strafottenza dei culi di marmo sui calendari, nonostante l’ordinario rincorrersi degli eventi, i protagonisti si prendono ancora il lusso di incazzarsi, di non farsi prendere in giro. Questa è Marinella, altrimenti detta “bocca marcia”, a causa del suo labbro leporino:
«Io non sono matta. Però potrei diventarci. Quando sei piccola ti dicono che in una nazione democratica come la nostra la donna può diventare qualsiasi cosa. Però non è vero. Te lo dicono solo per farti sbavare. Come l’uomo nel supermercato che pensa a una capriola erotica con la cliente chinata a raccogliere la lista della spesa. L’uomo che se torna a casa con mezzo chilo di cacao solubile, senza mutanda fucsia e senza capriola erotica. Così a me che sono donna mi dicono che in questa nazione democratica posso diventare qualsiasi cosa. E invece è una fregatura. Da ragazzina io volevo fare il prete. Il maestro di dottrina mi diceva che le femmine diventano suore. Ma a scuola da noi si diceva che le suore portano sfiga. Passava la suora e si diceva “tua sòra” e toccavi qualcuno per passargli la sfiga. Quello doveva trovarsi qualcun altro per passargliela, qualcuno che non ci avesse le dita incrociate. E chi rimaneva con la “sòra passata” era sfigato come la suora. Invece io volevo fare tutta la carriera da prete fino a vestirmi da cardinale, fino al Papa che si affaccia dalla finestra in mondovisione. Perché non posso farmi prete?»
Hong Kong brulica di storie e di leggende. Città fascinosa come il nome che si porta addosso: porto fragrante. Attraversarla significa viaggiare dalla Gran Bretagna fino a qualche remota regione indiana: tutto condensato in un migliaio di chilometri quadrati dove abitano otto milioni di persone.
E in cielo nuvole come draghi di Stefano Di Martino accompagna i gweilo, i non cantonesi, attraverso la storia di Hong Kong. Il libro intreccia di continuo il cinema, di cui Hong Kong è una capitale mondiale, seppur in decadenza, con le leggende millenarie della città. Dalle zone bazzicate dai trafficanti d’oppio nell’Ottocento, fino ai vialoni da inseguimento dei film di John Woo. Ovviamente c’è ampio spazio per le Triadi, le cellule della mafia cinese, che ad Hong Kong avrebbero utilizzato il cinema per riscuotere consenso. Le leggende sono civetterie di una donna bellissima, che quando si racconta mescola fatti e finzione tanto da non riuscire più a distinguerne i confini. Solo per ammaliare ancor di più chi la guarda:
«Se spingiamo lo sguardo oltre le cime dei grattacieli, vediamo che alle spalle del conglomerato urbano di Kowloon s’alzano picchi scoscesi: si narra che Di Ping, imperatore fanciullo della dinastia Sung travolta dalle orde mongole degli Yuan, li scambiò per draghi addormentati. Un consigliere, probabilmente un eunuco di quella categoria di funzionari che si dimostrano adulatori a volte e altrettanto infidi tessitori d’inganni in altre, gli suggerì che quel posto avrebbe dovuto chiamarsi “nove draghi” perché il Figlio del Cielo, benché in disgrazia, era pur sempre un drago, che si accompagnava a quelli incarnati nelle colline. Così nacque la denominazione rimasta ancora oggi, in un’era in cui le fumate degli scarichi nascondono le colline, magiche o naturali che siano».
Io sono il mercato di Luca Rastello racconta dalla viva voce di uno dei più grandi narcotrafficanti d’Italia la nascita e lo sviluppo del mercato globale della droga. Il libro si snoda sul crinale dell’ironia, senza mai scivolare nella caricatura, che sia per i toni magniloquenti dedicati alle celebrazioni d’imprese criminali o per l’eccessiva messa in ridicolo del parlato mafioso. La personalità del narcos emerge in tutto il suo cinismo (business is business, a prescindere che si vendano giocattoli o coca) e la sua passione per lo studio di soluzioni complicatissime al problema del nascondere merce e rotte. Il sistema nasce con Pablo Escobar, archetipo del narcos moderno, e si sviluppa attraverso le famiglie “onore, grilletti e Morricone”, le agenzie di servizi che compongono gli ingranaggi di questa mastodontica macchina. «Da me impari nozioni tecniche, per il mito rivolgiti allo sportello», si rivolge al lettore, giusto per mettere le cose in chiaro. La storia è punteggiata di martiri del narcotraffico, a cui la voce del grande “sistemista” riconosce il dovere del ricordo. A chiusura, il rievocare amaro di come l’hanno fregato. E con la storiella di un personaggio strano, che si circondava delle persone sbagliate. Finito al gabbio, ovviamente:
«Lo chiamavano il pittore, uno di buona famiglia,. Il fratello era direttore di una banca a Firenze, la sorella un chirurgo, splendida donna. Lui stava a Corpus Christi, in Texas, al confine con il Messico. Un ubriacone; e di mestiere, infatti, importava vino negli Stati Uniti. Ovviamente invece commerciava coca con il Messico, erano i ruggenti anni Ottanta. Lui aveva una bella villa e un ristorante (è una mania di noi narcos: senza un locale di proprietà non sei nessuno). La roba la faceva passare con i camion della frutta, scaricava direttamente in azienda. È possibile che avesse un complice in alto, ma a quel tempo non era così indispensabile. Solo che aveva un socio, italiano come lui, imprudente e chiacchierone. Tanto chiacchierone da attaccar bottone con gente dell’Fbi».
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!