Dialogo immaginario con un vecchio uomo politico su uguaglianza, lavoro, impegno
di Giulia Bondi
@gnomade
29 dicembre 2014. E. sta seduto nel suo salotto, su una poltrona di vimini con un rivestimento a fiori blu. Alle sue spalle, una grande vetrata ombreggiata da veneziane verdi, di plastica. Il tempo è poco, tra le tante domande possibili bisogna scegliere, trascrivere le risposte alla svelta, con un po’ di sintesi, di piccole aggiunte e tagli, un pizzico di libertà di interpretazione. Come in ogni intervista. Solo che questa è anche un po’ un gioco. Un’intervista impossibile, che chi scrive avrebbe voluto (e a dire il vero anche potuto) fare tante volte.
E. è un uomo politico di quelli di una volta, cresciuto in un’Italia più povera. «Sono nato alla politica durante la Resistenza» dice di sé. «Agli ideali della politica: libertà, eguaglianza e un mondo più giusto». Un vecchio uomo politico, si diceva, e forse per ora non è necessario sapere molto di più di lui.
Ti do del tu, sarebbe assurdo fare diversamente. E assurdo sarebbe anche non parlare di uguaglianza, una delle tue parole chiave in oltre sessant’anni di impegno sindacale, politico e di ricerca. Perché ci tieni tanto?
Purtroppo la parola uguaglianza è caduta in disuso da un pezzo nel linguaggio politico, compreso quello della sinistra, che la propone pressoché esclusivamente in termini di garanzia a tutti di pari opportunità di partenza (…) Occorre rivalutare parole come meritocrazia e competizione sociale e accettare le disuguaglianze che ne conseguono, specie quando sono eque, nel senso di riconoscere la diversità degli apporti al bene comune, e funzionali, nel senso di incentivare e premiare le attività più utili alla società.
Ma contro le disuguaglianze ingiuste o eccessive la politica sociale deve promuovere processi di redistribuzione delle risorse che concorrono a formare la qualità della vita, dall’istruzione al lavoro, dal reddito alle condizioni abitative e ambientali.
E ciò con il duplice obiettivo di garantire a tutti pari opportunità di partenza e di aiutare ognuno ad autopromuoversi, ma insieme di permettere a tutti – anche a coloro che per i più vari motivi restano indietro nella corsa della vita – di raggiungere un traguardo minimo, uno zoccolo di benessere, che assicuri una vita libera e dignitosa.
Benissimo: redistribuire le risorse. Hai citato il lavoro, comincerei da quello visto che oggi il tipo di contratto, la qualità del lavoro che si ha, è centrale anche nell’accesso al welfare.
Io credo che la quantità di lavoro complessivamente disponibile nel mondo non si concentri più prevalentemente in Europa, ma vada diluendosi, per cui diventa obbligatorio riprendere in considerazione la riduzione d’orario. Insomma “lavorare meno per lavorare tutti”. Naturalmente io penso anche ad una riduzione di salario.
Io fin dal 1971 credo che si debba andare ad una valorizzazione del lavoro manuale. Che chi svolge un lavoro gravoso debba essere pagato meglio.
Gli attuali ammortizzatori sociali? Alla cassa integrazione ha diritto il lavoratore della grande e non della piccola azienda. A prescindere dal fatto che esso sia l’unico o uno dei due o tre percettori di reddito della famiglia. E questo è sbagliato. Agli ammortizzatori sociali bisogna pensare non solo come strumenti per prevenire eventuali possibili conflitti, devono essere usati anche per andare incontro in modo diversificato alle situazioni di bisogno.
Ammortizzatori sociali differenziati in base al bisogno, in particolare delle famiglie? Ma quale famiglia, quali famiglie?
Quando si parla di famiglia, c’è sempre il rischio che scattino opposti meccanismi ideologici, tendenti a cercare, dietro ogni provvedimento, significati di valorizzazione o viceversa di incentivo alla disgregazione dell’istituto familiare.
Al contrario, ai fini della politica sociale, il riferimento alla famiglia deve essere assunto in termini totalmente laici: libero, cioè, da qualsiasi condizionamento ideologico. Si tratta semplicemente di partire dalla realtà: la famiglia può essere in crisi per molti aspetti, ma resta tuttora l’ unità base di convivenza (…)
Ciò che conta, per la politica sociale, è il fatto che le condizioni di vita degli individui dipendono in gran parte dalla situazione della famiglia, intesa semplicemente come unità di convivenza e, si può aggiungere, come unità di consumo nonché di produzione di servizi alle persone. Sarebbe quindi sommamente iniqua qualsiasi discriminazione basata sulla natura giuridica del rapporto di convivenza.
Quindi, per te l’intervento pubblico serve all’economia e alla società?
Il mercato si è rivelato il modo migliore per produrre ricchezza, ma non per redistribuirla. Abbandonato a se stesso, senza regole, il mercato diventa il luogo in cui trionfano i più forti.
Però scusa, anche lo stato non fa proprio sempre il bene dei cittadini. Per esempio, che ne pensi del dibattito sulla “casta” e sui costi della politica?
Le indennità dei parlamentari e dei consiglieri regionali son un argomento da prendere con le molle. Da un lato c’è il rischio di dar corda al facile qualunquismo di molta gente: «Per quel che fanno, è sempre troppo». Dall’altro, il fatto che siano gli unici lavoratori italiani che decidono da soli il proprio stipendio, imporrebbe una capacità di autolimitazione alquanto incompatibile con le caratteristiche della natura umana.
Volendo risolvere in radice il problema, bisognerebbe eliminare questa facoltà di autodecisione: se così si facesse, gran parte dei mugugni, giusti o qualunquistici, non avrebbero più ragion d’essere.
A questo risultato tendeva una proposta del gruppo democristiano all’inizio della prima legislatura regionale emiliana (1970-1975, ndr), di commisurare l’indennità alla media delle retribuzioni di dieci categorie di lavoratori, dai braccianti ai magistrati. La proposta fu respinta da tutti gli altri partiti, e l’indennità fu fissata in 400mila lire mensili, aumentate a 500 mila dal gennaio 1973.
«Gli unici lavoratori italiani che decidono il proprio stipendio» è una bella definizione. Oggi, a dire il vero, anche la definizione di lavoratore non è più così chiara.
Oggi chi vuole lavorare ha davanti a sé un’unica prospettiva: 36-40 ore di lavoro settimanale, per 47-48 settimane all’anno, per 35-40 anni. O lavoro a tempo pieno per tutta la vita, o niente (oggi 2014 non è più nemmeno così, anche se questa continua apparentemente a essere una delle poche forme di lavoro che porta con sé anche diritti, ndr).
Ma è dal lavoro che dipendono la previdenza, l’assistenza in caso di infortunio, per ora anche la maternità. Come si può cambiare tutto questo?
All’ elasticità dell’ impegno lavorativo non può non corrispondere un sistema pensionistico altrettanto elastico, basato su biografie contributive che possono essere le più svariate.
In quest’ ottica, il diritto alla pensione non dovrebbe esser condizionato ad un minimo di anni di lavoro; ognuno dovrebbe esser libero di smettere di lavorare quando crede, anche con cinque o dieci anni di servizio, salvo percepire la pensione al raggiungimento di una soglia di età, che potrebbe esser scelta dall’ interessato nella fascia fra i 55 e i 65 anni, con corrispondente variabilità dell’ importo della pensione, in conseguenza della diluizione del trattamento maturato su un diverso numero di anni di probabile vita residua.
Lavoro più “elastico”, accompagnato da diritti e ammortizzatori sociali, ma non uguali per tutti.
Dal momento che le risorse disponibili per una politica sociale oggi sono quelle che sono, se vogliamo seguire il criterio del contentino a tutti, non caveremo un ragno dal buco. Faremmo l’elemosina di alcune migliaia di lire al mese a tutti, compresi quelli che dispongono di alti redditi, senza alleviare in modo adeguato le situazioni veramente bisognose di agevolazioni.
Quali sono le difficoltà che impediscono un cambiamento, che bloccano le riforme in Italia?
Ci sono interessi da colpire e pressioni a cui resistere. D’ altra parte, le risorse sono quelle che sono: le riforme ispirate a maggiore equità non sono indolori. Ed è su questi problemi che deve misurarsi ogni forza di sinistra, sindacale o politica.
Ma in concreto come procederesti?
Naturalmente, le masse possono essere indotte ad accettare sacrifici a due condizioni: che si faccia veramente tutto il possibile per colpire lussi, rendite, alti guadagni, evasioni e che si profili un programma concreto per uscire dalla crisi senza restaurazioni e ritorni al passato, ma dando avvio ad un assetto sociale diverso e più giusto (…)
Se ieri la linea egualitaria è stata una grande conquista, oggi non basta più. O meglio: egualitarismo, in senso più completo e pregnante, non può significare tendenza all’appiattimento, ma giustizia distributiva e rispondenza alle esigenze della società.
Donde la necessità di valorizzare (non a parole, come ora) le mansioni più disagiate, rischiose e alienanti: in genere il lavoro così detto manuale, quello che nessuno vorrebbe svolgere. È necessario, anche se non sufficiente, assicurare un miglior trattamento, normative ed economico, ad operai e contadini. Molti inquadramenti vanno rivoluzionati. È ridicolo pagare di più gli impiegati degli infermieri professionali. L’impiego pubblico deve pagare la sicurezza assoluta del posto con retribuzioni inferiori rispetto a chi corre l’alea del mercato (…) Austerità, rigore, serietà devono diventare costume generalizzato (…)
Certo, occorrerebbe un fatto traumatico, uno shock che desse l’impressione alla gente che comincia un periodo, transitorio, ma eccezionale, della vita italiana: nel quale speculazioni, evasione, egoismi di gruppo, anarchie corporative non saranno più tollerate; né ci potranno essere tabù, privilegi acquisiti, interessi intangibili.
D’altra parte, non essendo pensabili soluzioni diverse imposte dall’alto, la svolta non può che maturare alla base, fra i lavoratori e nell’elettorato. Insomma una rivoluzione basata sul consenso. Quanto la base sia restia e ancora carica di diffidenze, lo vediamo in questi giorni. È comunque certo che dalla crisi non si esce senza il concorso di tutti: nelle forme che il coraggio e il realismo politico potranno escogitare.
D’accordo. E a un certo punto bisognerà decidere a chi dare e a chi togliere.
È fuori dubbio che una quota più adeguata del reddito delle attività produttive deve esser trasferita a favore del fattore lavoro. Ma si tratta solo di rivalutare i salari individuali? Il quadro delineato porta a concludere che deve essere rivalutato anche il potere d’acquisto di quella maggioranza di lavoratori che non vivono soli, ma hanno una famiglia da mantenere. Questo significa esser dalla parte dei più deboli.
È un problema che riguarda tutta la sinistra: se essa non riscopre parole come uguaglianza e redistribuzione, che sinistra è?
Viviamo un momento difficile: bisogna risanare il bilancio e una riduzione del tenore di vita è inevitabile. Ma una politica di rigore è giusta e socialmente accettabile solo se non fa le parti uguali fra disuguali. Non si può dimenticare che centomila lire in meno, per molti significano una sera in meno in pizzeria, per altri la rinuncia a soddisfare bisogni primari.
In un modo o nell’altro, hai fatto il politico per tutta la vita. Come è iniziato tutto?
A parte la mia cultura cattolica devo dire che mi trovai nella Dc per caso. Anche se era lo sbocco inevitabile delle mie ideologie politiche. Accadde che l’avvocato Coppi, ultimo segretario del partito popolare modenese, mi nominò, di punto in bianco, rappresentante della Dc nel comitato militare CLN, il Comitato di liberazione nazionale.
Dopo la guerra io e altri abbiamo occupato la sede del Gruppo universitario fascista, il Guf, per farne la sede della Democrazia Cristiana, e ci siamo impegnati nel sindacato, fondando anche la Cisl a Modena.
Nel 1958 sono stato eletto deputato, ma, nel 1963, quando è finita la legislatura, non mi sono ripresentato.
Mi è sembrato che a livello locale si costruisce, si realizza di più. La politica che si fa a Roma è diversa da quella reale che vive la gente.
Questo lungo corridoio che c’è alla Camera dei Deputati e che si chiama Transatlantico o anche “corridoio dei passi perduti” è in un altro mondo: si respira un’atmosfera che è diversa da quella del paese reale, e poi non ho voluto fare la fine della maggioranza dei parlamentari che dividono la loro vita e la loro attività fra la capitale e la provincia. Con il risultato di non contare niente a Roma e ancora meno in campo locale.
La tessera della Democrazia Cristiana l’hai tenuta fin (quasi) alla fine.
La Democrazia Cristiana è morta nel 1980: dopo, ha vissuto di vani tentativi di contenimento dell’egemonia craxiana. Parliamo dunque di quella di prima (…)
Pur essendo stato un democristiano anomalo, quasi sempre all’opposizione, non vorrei lasciar credere che io condivida la tesi che la radicale trasformazione storica che l’Italia ha registrato nel trentennio postbellico sia avvenuta per forza propria, come se i democristiani non ci fossero stati e non avessero esercitato alcuna influenza. Mi sembra una tesi piuttosto azzardata.
Certo, continuare a essere democristiano è stato difficile. Lo sono rimasto perché questo partito era il meno peggio che c’era.
Ma non è solo nella Dc che ti sei trovato in minoranza. Dopo, hai fondato il movimento dei “Cristiano sociali”, perché, cito le tue parole «gli storici del futuro non potessero dire che i democristiani erano stati tutti di destra». E hai contribuito alla nascita dei DS.
Già, ma D’Alema aveva sposato ampiamente tutte le tesi moderate di rinnegamento anche degli eccessi del passato, pensando di rifarsi una verginità. E quindi io mi sono trovato spesso, io e gli altri come me, a sinistra degli attuali ex comunisti. Mi ricordo il congresso di Firenze in cui si passò dal PDS ai DS: nella mozione conclusiva non siamo riusciti a far comparire la parola “uguaglianza”, tanto erano preoccupati…
Sei credente, sei sempre andato a messa la domenica, almeno sempre da quando, come dici tu, ti sei “convertito” (frequentando un’associazione cattolica guidata da giovani sacerdoti nei fatti antifascisti, ndr). Però hai appoggiato, ai tempi del referendum sul divorzio, i “cattolici per il no” e molte altre volte hai ribadito l’importanza di un approccio laico. Quale rapporto ci deve essere per te tra fede religiosa e politica?
Chi ha responsabilità politica non può limitarsi a trasferire meccanicamente i propri convincimenti in una legislazione che detta norme valide per tutti i cittadini, credenti e non. Così facendo, il politico darebbe testimonianza delle proprie idee ma rinuncerebbe al suo compito.
Qual è il tuo rapporto con il potere?
Credo che il potere, inteso in senso positivo, cioè nella possibilità di attuare le proprie idee, non è da rifiutare. Mentre invece la ricerca del potere come gratificazione o per arrivare a certe poltrone, è da condannare.
Quali virtù e quali difetti credi di avere?
Per virtù direi un mio distacco dal denaro, la mancanza di ambizione di potere e la tenacia. Se mi propongo un obbiettivo lo raggiungo anche se poi l’obbiettivo fallisce. I difetti: sono un po’ lento a capire le cose, sono un po’ autoritario anche se lo faccio con la persuasione, sono disordinato e anche volubile. Ma quest’ultimo non so se è proprio un difetto.
Chi pensi di dovere ringraziare per i risultati che sei riuscito a raggiungere?
Tutto il mio lavoro è stato frutto di un lavoro collettivo, nel quale tantissime persone hanno collaborato con me. Anche gli studi, le ricerche che ho fatto non nascono tanto dalla lettura di libri, ma da una lunga esperienza di impegno civile nei suoi vari aspetti, politica, sindacato, cooperazione. Con un carattere di stretto legame con i problemi della gente e le possibili risposte che la politica può dare a questi problemi.
Come avrà capito chi ha cliccato sui link che indicano le fonti, questa “intervista immaginaria” è in realtà un collage, frutto di scelte rapide e sicuramente arbitrarie, tra alcuni scritti di Ermanno Gorrieri, disponibili gratuitamente sul sito web della Fondazione Ermanno Gorrieri per gli studi sociali, assieme a molte altre risorse e documenti sul tema delle disuguaglianze sociali nell’Italia di oggi.
Gorrieri è stato partigiano, sindacalista, uomo politico. Amante, fino a quando la salute glielo ha permesso, della montagna e della bicicletta. Padre di sei figli, una dei quali era la madre di chi scrive. È morto 10 anni fa esatti, il 29 dicembre 2004.
Q Code ha già parlato di lui, in veste di Cicloturista partigiano, un pezzo della sua storia ancora precedente rispetto a quello dell’impegno politico.
Questo dialogo impossibile ed estremamente parziale è una piccola occasione di conoscere il suo pensiero. Che poi, forse, non è solo suo, ma di una generazione che credeva più di oggi nell’impegno politico, e nella possibilità di cambiare le cose.
Si basa su scritti o interviste pubblicati tra il 1977 e il 2001, e su un legame di nepotismo, in senso letterale, con chi firma questo pezzo.
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