“Nessuno se ne sarebbe andato da Yarmouk se non fossero arrivati i mortai. La nostra storia da allora è raccontata in termini di “prima e dopo i Mig”. Il dolore della nuova diaspora dei palestinesi di Siria nell’ultimo documentario di Carol Mansour, che abbiamo incontrato a Beirut
di Paola Robino Rizet*, Osservatorio Iraq
2 gennaio 2015 – Carol Mansour è una regista palestinese libanese, l’ho incontrata nel suo studio nei pressi di Hamra, dove mi ha raccontato come, con una laurea in psicologia e medicina dello sport, è poi arrivata a diventare film-maker.
E’ una donna simpatica e schietta e ho il sospetto che i suoi passati studi sulla psiche abbiano esaltato la capacità di far sentire a proprio agio e nel posto giusto le persone che incontra.
Come molti della sua generazione ha abbandonato il Libano durante la guerra civile, per dieci anni ha trascorso la sua vita in Canada.
Qui, negli anni della prima giovinezza, per essere indipendente ha lavorato come cameriera e vendendo popcorn nei cinema. Ogni estate tornava per circa quattro mesi. Lo ha fatto dal 1982 al 1992.
“Ogni ritorno mi poneva nella condizione di vedere come la guerra anno dopo anno lasciava segni indelebili nelle persone”, racconta. A cambiare il corso degli eventi è stato un corso di film-making ed editing che decise di frequentare in Canada, quasi per caso. Dopo una breve pausa al Cairo, torna in Libano.
E’ il 1992, la guerra nelle strade è finita e si respira nell’aria un clima di speranza. Inizia a lavorare per un nuovo canale televisivo: Future tv. Impara tanto e capisce di aver trovato finalmente la sua strada. Apre una casa di produzione, la “Forward Film Productions”.
Da allora ha al suo attivo numerosi documentari, tra i più importanti vanno ricordati A Summer To Do Not Forget, girato a una settimana dal termine della guerra dell’estate del 2006, quando Israele invase il Libano.
E il più recente, Who Not We Are, che racconta invece l’impatto della guerra sulla vita di cinque donne siriane fuggite in Libano.
Qui la capacità di far parlare della propria vita personale donne completamente diverse fra loro per origine, provenienza e credo religioso, affrontando temi anche profondamenti personali, resta una delle prove più interessanti del suo percorso espressivo.
I suoi documentari sono stati proiettati in tutto il mondo e hanno ricevuto numerosi premi internazionali. Prima di salutarci mi ha dato una copia di We Cannot Go There, My Dear la sua opera più recente.
Un lavoro molto curato per la scelta delle inquadrature, la fluidità delle immagini e per la fotografia.
Girato nel 2014 in Libano, Danimarca e Svizzera, accostando scene di repertorio e immagini del presente, il lungometraggio racconta l’esperienza traumatica e dolorosa del duplice esilio dei siro palestinesi fuggiti dalla guerra civile in Siria.
Quattrodici testimonianze, tutte particolarmente toccanti e commoventi, mettono in luce, senza filtri e tra tante lacrime, una delle paure più grandi dell’essere umano: trovarsi costretto a lasciare il luogo dove ha sempre vissuto, non per scelta personale, ma a causa di una guerra.
Una voce femminile fuori campo descrive lo shock dell’esilio della Nakba, di chi fuggì nel 1948 pensando di tornare dopo una settimana in Palestina e a cui si sovrappone, oggi, un nuovo esilio.
Il legame inevitabile e lacerante con il passato vissuto dalla prima generazione di palestinesi costretti alla fuga per ragioni storiche completamente diverse dall’oggi, torna ad essere il presente dopo 66 anni. E’ questo il tema centrale dell’intero documentario.
Nel dicembre del 2012, il campo profughi di Yarmouk viene assediato e un anno dopo sigillato. Dal 2013 nessun civile vi potrà più entrare, e pochi riusciranno ad uscire. Solo i militari e le forze anti-regime avranno libertà di movimento.
Delle 180 mila persone che lo abitavano, oggi ne sono rimaste 20 mila. Diverse centinaia sono morte di fame. E 160mila sono coloro che oggi costituiscono la nuova diaspora palestinese.
E’ da questi assunti che il documentario muove per lasciar parlare soprattutto i 14 protagonisti, principalmente giovani.
C’è Abou Ghabi, musicista, che racconta: “Nessuno se ne sarebbe andato dal campo se non fossero arrivati i Mig. La storia della gente di Yarmouk da allora è raccontata e percepita in termini di ‘prima e dopo i Mig'”.
Per mesi e mesi sul campo sono stati infatti lanciati tra i 10 e i 15 mortai al giorno.
E c’è Samer, regista: “Ho raccolto pochi oggetti personali e sono corso verso l’entrata del campo e mentre correvo, passo dopo passo, si faceva strada in me l’idea, il dilemma, se ci sarebbe mai stato ritorno…Da quel momento mi sembra di non aver mai smesso di correre. Corro sempre, corro anche quando sono a casa, corro anche quando dormo…”.
Parte del girato nel campo, in particolare le scene di fuga sotto bombe e proiettili, le ha riprese lui stesso.
Dallo sfondo di un parco di Ginevra incredibilmente pulito e silenzioso c’è Hani Abbas, vignettista, che racconta il suo esilio in Svizzera. Seppure consapevole di essere tra i fortunati riusciti a salvarsi, si chiede cosa ci sta facendo in questa nuova città. A spiegarcelo sarà il figlio, ancora in Siria, mentre disegna.
Alla domanda: cosa fa il tuo papà? Risponderà: “Mi sta aspettando”.
Dal documentario affiora in più occasioni la percezione del campo come simbolo di casa, di luogo di relazioni sociali e legami affettivi, non più ritrovati fuori.
Il Libano, terra di passaggio per la maggior parte dei protagonisti, viene descritto a ragione come il paese che più di tutti gli altri ha stigmatizzato i palestinesi dei campi in un circolo vizioso di diritti basilari negati e di segregazione.
La voce fuori campo, intervallata da una testimonianza e l’altra, da respiro al racconto e assume a tratti un carattere universale.
Se le esperienze raccontate sono infatti personali, l’io narrante è l’intera comunità di rifugiati palestinesi sparsa per il mondo, quella del ‘48 e quella nuova, dei nostri giorni.
A metà del lungometraggio, mentre scorrono le immagini di una giovane donna che prepara il suo bagaglio, viene descritta in poche parole la percezione che hanno di se stessi i nuovi esiliati in relazione al resto del mondo, della comunità internazionale:
“E per più di 66 anni ci abbiamo provato, abbiamo avuto successo e abbiamo fallito. A volte ci siamo sentiti non considerati. Sappiamo di non essere gli unici in Siria a cui la vita è stata sconvolta, ma sappiamo di essere invisibili in questa catastrofe. I nostri documenti cristallizzano la nostra esistenza nella sofferenza. Le nostra carte d’identità di rifugiati non sono valide per viaggiare. Scegliamo quello che ci viene offerto, se mai ci viene offerto. Abbiamo delineato una nuova mappa della nostra diaspora. Ci siamo rassegnati. Il viaggio è arduo e continua ancora adesso”.
*Paola Robino Rizet è responsabile del progetto di Sostegni a Distanza in Libano di Un ponte per… e vive a Beirut. La foto pubblicata è di Melinda Trochu.
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