Mercato, cartellini, scommesse, razzismo e affari. Secondo Damiano Tommasi l’attenzione al business danneggia il calcio. E i figli di migranti nati in Italia dovrebbero essere tesserabili come italiani
di Duccio Facchini, Altreconomia
4 gennaio 2015 – Damiano Tommasi, ex mediano della Roma, ha lasciato il calcio professionistico nel 2009. Gianni Mura – che seguì il suo “debutto”, nel dicembre di quell’anno, in seconda categoria con il Sant’Anna d’Alfaedo, squadra dilettante della provincia di Verona- l’ha definito “coscienza critica e cuore pensante” del pallone italiano, “uno capace di raccogliere oltre 250 firme di colleghi contro la guerra definita umanitaria, nei Balcani”. Dal 2011 Tommasi, che oggi ha 40 anni, è presidente dell’Associazione italiana calciatori (Aic), in un sistema che a livello nazionale ha prodotto la presidenza di Carlo Tavecchio alla guida della Federazione italiana giuoco calcio.
Signor Tommasi, la nostra rivista si occupa di diritti, economia solidale e stili di vita sostenibili. Valori laici che si accostano poco al calcio italiano di vertice. Lei ha attraversato questo mondo, con occhio e voce critica. Dove intervenire per cambiare rotta?
«Sia il calcio di base sia quello di vertice soffrono della poca attenzione all’aspetto sportivo, e all’eccessiva attenzione rispetto a logiche di business. Questo è l’elemento che genera scompensi nelle scelte, nelle previsioni e nelle percezione del fenomeno del calcio. Dopodiché, c’è il problema delle squadre, che sono in Italia società di capitale, a scopo di lucro, e quindi hanno spostato l’equilibrio e il peso decisionale su aspetti economici, sempre meno collegati ai caratteri sportivi».
Il pallone ha un peso straordinario sull’opinione pubblica italiana. Eppure, nel suo momento sportivamente più basso -com’è l’eliminazione al primo turno da un Mondiale-, la risposta del sistema è stata il duo Tavecchio&Lotito (Claudio, presidente della Lazio, eletto nel Comitato di presidenza della FIGC, ndr). Ritiene riformabile il “mondo del calcio”?
«Non concordo con il ritenere il punto più basso del calcio l’eliminazione da un Mondiale. Il “ciclo” di Prandelli (Cesare, allenatore della Nazionale italiana dal 2010 al 2014, ndr) finisce dopo un secondo posto all’Europeo, un terzo posto alla Confederation’s Cup e una finale under 21. Il vero termometro del calcio italiano è la competitività a livello europeo dei nostri club, che ovviamente si ripercuote poi sulla nazionale e sui livelli di ranking calcistico del nostro Paese. La reazione del sistema è stata quella che abbiamo visto tutti, ma non sono così pessimista: mi auguro, anzi, che nuovi soggetti si mettano in prima linea per avanzare proposte di cambiamento».
La finanza ha raggiunto lo sport. Come giudica l’interesse per squadre e campioni di capitali esteri e fondi d’investimento? Che opinione ha del calcio off-shore?
«I fenomeni sono due. Da un lato gli imprenditori esteri che investono nel calcio italiano e dall’altro i fondi proprietari dei cartellini dei calciatori. Sono due aspetti diversi. Il secondo è un’anomalia, vietata in Italia e che si vuole vietare anche a livello mondiale, dato che i fondi di investimento sono ancora più invasivi di un imprenditore, e quando questi soggetti sono proprietari di un calciatore questo incide sui trasferimenti e condiziona parecchio la gestione societaria e quindi il mercato».
Calcio provinciale e calcio minore. Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso pubblico ed editorialista di Altreconomia, ci ha raccontato in più di un’occasione del controllo territoriale che gruppi criminali esercitano con squadre di provincia, che ne pensa?
«Dalle ricerche di Pierpaolo è risaputo che il calcio -anche quello di Serie A- dà una visibilità e una riconoscibilità pubblica a chi lo gestisce molto importante (il libro “Calcio criminale” è del 2012, ndr). Il rischio è che qualcuno se ne serva per ricostruirsi una credibilità sociale in un territorio in cui -probabilmente- ci si vuole inserire con il malaffare. Questo sono i rischi tipici del nostro sistema calcio».
Recentemente ha proposto l’introduzione dello ius soli sportivo. Che cosa intende, perché e come lo immagina?
«Anche Gianni Rivera aveva affrontato tempo fa questo tema. Il punto è considerare chi è nato in Italia italiano, sportivamente parlando. Secondo la legislazione in vigore, fino ai 18 anni anche chi è nato in Italia non è cittadino del nostro Paese, e quindi per tutto l’arco delle giovanili non ha la possibilità di giocare nelle nazionali. Questo anche perché la FIFA riconosce come ‘convocabili’ nelle selezioni nazionali solo i cittadini di un determinato Paese. Quello che vorremmo noi è che chi è nato in Italia resti fuori dal traffico di minori per motivi calcistici. Si tratta perciò di una normativa nazionale che s’incrocia con le regole FIFA e crea disagi e problematiche nel momento in cui si procede al primo tesseramento di ragazzi figli di cittadini stranieri ma nati in Italia, e con la prospettiva di essere italiani. Questo potrebbe essere uno dei passi verso maggiore integrazione e facilitare l’attività sportiva per i ragazzi nati qui. Il tutto in attesa di una legge sulla cittadinanza, che mi sembra sia in cantiere».
La nuova legge sugli stadi apre le porte a procedure accelerate che potrebbero minare la tutela del paesaggio, ma le società la indicano come necessaria. Lei che ne pensa?
«Innanzitutto la legge ha come oggetto l’impiantistica sportiva, ed è confusa con la legge sugli stadi perché permette di agevolare la costruzione o la ristrutturazione di impianti sportivi per tutti gli sport, a maggior ragione per quelli di maggiore capienza. In Italia, c’è sicuramente un ritardo rispetto alla percezione dell’importanza dell’impianto sportivo, ma probabilmente si accentua l’analisi intorno allo “stadio” per non evidenziare -invece- le risorse che non vengono investite in queste strutture a medio e lungo termine perché si investe di più a brevissimo termine, andando a pagare servizi, consulenze, commissioni e atleti in maniera sproporzionata rispetto a quello che dovrebbe fare una società che ha un orizzone d’investimento di medio e lungo periodo.
Credo che in questo parecchie società stiano facendo poco nell’investire in infrastrutture, con o senza la legge sull’impiantistica insomma. Penso a quanti hanno un centro sportivo per il settore giovanile, o quanti hanno un campo di allenamento sportivo di un certo tipo per la prima squadra. Si può fare di più, anche per vivere lo stadio in un altro modo. Mi sembra che ci possano essere le risorse senza andare a toccare equilibri territoriali che oggi si rischia di andare a modificare quando si propone un’iniziativa privata su un impianto che pure ha una utilità socialmente rilevante».
Lei ha giocato anche all’estero, in Spagna, Inghilterra e Cina. Dove ha incontrato il calcio più sano?
Ho vissuto il sistema spagnolo delle seconde squadre, che opera per dare continuità sportiva all’interno di un club, garantendo la possibilità di trovare impiego ad alto livello per i più giovani. È un sistema che non è ancora stato capito in Italia, e che potrebbe sicuramente aiutare non solo i calciatori ma anche gli allenatori a misurarsi con le categorie inferiori, lasciando agli stessi calciatori la possibile di giocare una, due, tre partite con la prima squadra, nelle Coppe europee, con un inserimento meno traumatico ell “grande palcoscenico”. L’Italia è l’unico Paese al mondo ad avere tre leghe professionistiche diverse, e quindi qualsiasi decisione di questo tipo -per incentivare l’utilizzo dei giovani- deve passare al vaglio di tre assemblee diverse, di tre consigli diversi e di tre presidenti diversi.
Quali sono, a suo avviso, le caratteristiche più negative del calciomercato italiano.
La peggiore è senz’altro la patrimonializzazione del calciatore. Dare un valore patrimoniale a una persona credo che sia una delle più grandi storture del calcio, che è l’unica “azienda” al mondo che ha come patrimonio nome e cognome delle persone, e i diritti sull’espletamento dell’attività sportiva di quella persona vengono ammortizzati e considerati come un bene strumentale all’attività dell’azienda. È una stortura che fa sì che i fondi d’investimento acquisiscano quote di proprietà dei calciatori, e che ogni operazione che comporta la conferma -o meno- in una squadra sia direttamente collegata al prezzo di ammortamento. Sono caratteristiche che incidono sulle scelte di mercato -chi andare a prendere, quanto vincolarlo- e rendono difficile cedere un calciatore nel momento in cui non ha più lo stesso rendimento.
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