Il capitale di Piketty

Un bel libro che ha suscitato le ovvie, in qualche caso rabbiose, reazioni dei cantori del liberismo

Nel suo Capitale Piketty incendia e brucia i dogmi principali del neoliberismo fino a ridurli in cenere. Una boccata d’aria fresca e una manciata di colori arcobaleni a squarciare l’atmosfera mefitica e plumbea indotta dalle oscenità del capitalismo libero e selvaggio, proponendo una conoscenza che ristabilisce un codice di verità contro le mistificazioni ideologiche sparse a piene mani sub specie di una pretesa scienza oggettiva a sostegno del neoliberismo, addirittura per alcuni inscritto nella natura e nella sua evoluzione fino al vivente.

Questo è il primo punto: Piketty ci dice che ogni economia è economia politica, cosa già enunciata da Smith, Ricardo, Malthus, Marx, ma di cui si era tentato di cancellare la memoria. Lo fa attraverso alcune semplici leggi corroborate da una grande quantità di dati, con lunghe serie temporali, a volte spaziando lungo un secolo e oltre, e se non bastassero esistono gli annessi tecnici al libro sui siti htpp://piketty.pse.ens.fr/capital21c e htpp://topincomes.parisschoolofeconomics.eu, che ampliano il campo delle rilevazioni, delle fonti empiriche, delle metodologie d’indagine e della strumentazione matematica; siti work in progress quasi sterminati e altamente specialistici, in cui confesso di essermi avventurato solo un paio di volte, essendo troppo ostici per un lettore comune.

Invece la lettura del testo è piacevole quando non appassionante, insomma un libro che, nonostante le sue 960 pagine (Le capital au XXI siécle – Seuil, edizione cui ci riferiremo da qui in poi) , dopo averlo aperto e cominciato, non puoi altro che finire, più o meno come capita per una buona detective story nello stile di John Le Carrè, un libro che potremmo chiamare “romanzo scientifico”.

Un bel libro che ha suscitato le ovvie, in qualche caso rabbiose, reazioni dei cantori del liberismo. In Italia Giuliano Ferrara ha parlato dello “sciocchezzaio di Piketty” o qualcosa del genere, seppure gli osservatori cosiddetti, e gli accademici dell’economia, persino i più discinti liberisti, ci siano andati cauti. Piketty è un grande accademico, ha scritto un best seller, quando le loro pubblicazioni, ammesso che esistano, rimangono sconosciute, a parte gli articoli che scrivono per i giornali dell’establishment, da noi pressoché tutti pagati dai padroni della finanza, del vapore e/o delle ferriere.

Per di più l’autore di Le capital au XXI siécle è maestro di polemica, nelle sue pagine trafigge molti suoi colleghi USA, assai rinomati nell’universo mondo, ipotizzando che il loro consenso attivo alle teorie liberiste delle diseguaglianze sia dovuto non tanto a considerazioni scientifiche, quanto al loro status sociale e economico di persone ricche o molto ricche.

Forse anche per questo specie nel mondo anglosassone parecchi hanno incrociato il ferro duellando con Piketty, senza mai trovare la stoccata buona. Per quasi tutto il 2014 il Financial Times, bibbia del capitalismo specie finanziario, ha pubblicato articoli assai critici, cui Thomas Piketty ha risposto punto per punto, a volte in modo irridente, fin quando il giornale altro non ha potuto che riconoscerne il valore, assegnandogli in novembre il prestigioso Financial Times and McKinsey Business Book of the Year Award , probabilmente secondo la massima che quando non puoi battere il tuo nemico, allora prova a fartelo amico.

Se a questo punto ci avventuriamo nel testo, senza alcuna pretesa di completezza, forse il giudizio più implacabile sull’attuale fase del capitalismo arriva a pagina 600 laddove si scrive che “la diseguaglianza r>g significa in qualche modo che il passato tende a divorare l’avvenire” (traduzione mia, come da qui in poi), dove r rappresenta il tasso di rendimento da capitale e g il tasso di crescita, disequazione che Piketty individua come fondamentale in questo periodo storico per la dinamica capitalistica.

“Le ricchezze che vengono dal passato progrediscono meccanicamente più veloci, senza lavorare, delle ricchezze prodotte dal lavoro (..) Pressoché inevitabilmente, questo tende a dare una importanza smisurata e durevole alle diseguaglianze formatesi nel passato”. Il tasso di rendimento del capitale è fortemente e stabilmente più alto del tasso di crescita quindi la divergenza cresce (r>g); i patrimoni che vengono dal passato si ricapitalizzano più rapidamente del ritmo di progressione della produzione e dei redditi da lavoro, così la concentrazione di capitale raggiunge livelli molto elevati, e più i capitali sono elevati più il rendimento medio è cospicuo. Ecco in poche parole – ma sostenute da montagne di dati – svelata la natura propriamente reazionaria del capitale che divora il futuro in nome del passato, altro che le magnifiche sorti e progressive.

Il fatto è che la crescita mondiale g sempre invocata come la panacea, viene da Piketty calcolata – oltre la crisi – al più attorno all’1.5% in media sul lungo periodo, (un’altra stima dice lo 0.8%), mentre il rendimento da capitale è dell’ordine almeno del 2%, tasso che può raddoppiare, triplicare e oltre per i patrimoni medio grandi (dal milione ai miliardi di euro). Così mentre il mito della crescita viene abbattuto, la dimensione reazionaria dell’attuale dinamica per l’accumulazione capitalistica è certificata dall’odierna struttura delle diseguaglianze tra redditi da lavoro e redditi da capitale.

Disuguaglianze che, rispettivamente all’interno dei redditi da lavoro, tra manager e operai per esempio, e per le rendite da capitale tra grandi e piccoli , sono tornate ai livelli raggiunti nella decade 1900- 1910 fino al ‘14, ovvero sulla soglia della Grande Guerra, la prima guerra mondiale. Perché, avverte Piketty, un capitalismo che incrementa in modo esponenziale le diseguaglianze produce catastrofi e caos, di cui guerre e rivoluzioni sono una manifestazione.

Alcuni dati. Ottantanove (89) persone al mondo possiedono la stessa fortuna dei tre (3) miliardi di esseri umani più poveri. Bill Gates guadagna quindici (15) miliardi di dollari l’anno circa (anno 2013); se assumiamo lo stipendio medio di un maestro elementare italiano intorno ai millecinquecento (1500) euro netti al mese, ebbene ci vogliono novemilioniduecentoventimila (9.220.000) maestri per avere lo stesso reddito monetario. E gli esempi molto precisi e accurati di macroscopiche crescenti diseguaglianze nel testo abbondano.

Nessuno nega la validità dei dati che attestano le diseguaglianze, ma gli ideologi neoliberisti cercano di argomentare che la diseguaglianza induce competizione quindi è positiva per l’economia; inoltre hanno addirittura inventato un modello, in gergo trickle down sgocciolamento dall’alto – il mondo di sopra – dove s’accumulano enormi ricchezze che “gocciola” in basso – il mondo di sotto – dove stanno i poveri, che con queste gocce potranno bagnarsi le labbra.

In realtà essi propongono in modo rozzo un modello di percolazione della ricchezza, ma per avere percolazione nei sistemi fisici bisogna che il materiale sia poroso, cioè permeabile, e per dir così, che tutti i componenti elementari, i soggetti del sistema, siano eguali, il che non è nei sistemi economici capitalisti, anzi è proprio l’opposto. Ma, senza entrare nei dettagli delle perversioni cui gli ideologi liberisti tentano di piegare i modelli matematici, basta dire quanto hanno guadagnato le Borse nel 2013, in piena crisi: Tokyo +57%, New York Nasdaq +37% Dow Jones +25%, Francoforte +25%, Madrid +21%, Parigi + 17.6%, Milano + 16.56%, Londra +14.3%, ecc..(fonte La Stampa).

Ebbene, non solo niente di questa ricchezza è “sgocciolato” in basso, ma la grande maggioranza della popolazione si è fortemente impoverita, lo stato sociale drasticamente raggrinzito, i diritti del lavoro ridotti, i salari diminuiti, i senza lavoro aumentati perché, seppure Piketty non lo dica, la ricchezza dei pochi si fonda sullo sfruttamento dei molti, quanto più sfrutti tanto più diventi ricco, è il capitalismo bellezza.

Piketty mostra in modo inequivocabile che le diseguaglianze non solo non producono aumento della ricchezza e/o crescita ma quando diventano eccessive come allo stato attuale, generano crisi economica, sociale, produttiva, nonché tumulti e instabilità. Nè basta la meritocrazia a giustificare: guadagno di più perché sono più bravo.

I galattici emolumenti dei top manager non hanno alcuna relazione coi loro meriti produttivi – Piketty fa più di un esempio in questo senso, avendo gioco facile: si tratta di gerarchia e potere, non di straordinarie capacità e intelligenza. Dopo affonda il coltello nella carne viva delle grandi ricchissime università USA d’eccellenza mondiale – Harvard (30 mld, miliardi di dollari in bilancio annuo), Yale (20 mld), Princeton e Stanford (15 mld) con rendimenti di capitale che stanno tra l’8 e il 10%, università che del merito e della meritocrazia dovrebbero essere templi sacri e limpida incarnazione.

Invece le decisioni d’ammissione mostrano una correlazione statistica robusta con la la capacità finanziaria dei genitori e uno studio ha messo in luce che i doni fatti dagli ex-allievi alla loro università sono “stranamente” concentrati nel periodo in cui i loro figli arrivano in età universitaria, mentre il reddito medio dei genitori degli studenti di Harvard è di 450000 dollari l’anno, scusate se è poco. “Il contrasto tra il discorso meritocratico ufficiale e la realtà sembra qui particolarmente estremo”, chiosa Piketty. Insomma a questo punto o il sistema viene riequilibrato nel senso dell’eguaglianza oppure rischia di collassare.

Piketty assume il capitalismo come forma data, non mettendo in discussione né la proprietà privata né lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per usare una formula di Marx, tantomeno il modo produzione e l’organizzazione del lavoro. Egli si concentra sulla distribuzione della ricchezza, e lì scopre la diseguaglianza come grande male che può minare alla base il capitalismo stesso: “sarebbe illusorio immaginare che esistano nella struttura della crescita moderna, o nelle leggi dell’economia di mercato, forze di convergenza che conducano naturalmente a una riduzione delle diseguaglianze o a una armoniosa stabilizzazione”.

Quindi bisogna intervenire politicamente con la forza della democrazia statuale e sovrastatuale, e adesso sarebbe il momento di raccontare la proposta – articolata e quantificata – che egli fa per l’imposizione di una tassa mondiale sui capitali e le transazioni finanziarie. Proposta che è connessa allo sviluppo dello stato sociale, rifiutando la dizione welfare state – che vuol dire stato del benessere – e era ora! I diritti sociali, scuola, sanità, previdenza, casa nulla hanno a che fare con un’economia affluente, anzi ci spiega Piketty, proprio nella crisi lo stato dei diritti sociali, sottratti al mercato, deve estendersi e rafforzarsi, diventando fattore di sviluppo.

Varrebbe anche la pena di spiegare come nel libro il problema del debito pubblico tanto angosciante nella vulgata dell’austerità, sia nient’altro che un portato della furia e avidità speculativa, che può e dovrebbe essere rintuzzata dall’azione politica democratica. E tanto altro ancora meriterebbe di essere esplicitato. Ma noi vogliamo concludere indicando una mancanza, un vuoto nel libro. Piketty non tiene in alcun conto i limiti imposti dalla natura alla produzione umana, un cenno al riscaldamento climatico arrivando solo a pagina 933. Eppure se un contratto d’equità va riscritto tra gli umani, un altro contratto d’equità va scritto exnovo tra gli umani e la natura, altrimenti non ci sarà attività economica alcuna comunque declinata che sia portatrice di civiltà.

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