Quando morì, l’8 gennaio di 70 anni fa, non aveva ancora compiuto vent’anni. Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un ragazzo divertente e simpatico, oltre che coraggioso. Pare che non sapesse ballare, ma ci provasse ugualmente, nei momenti di leggerezza che intervallavano la guerriglia. Che fosse capace di rincuorare i compagni di lotta, persino dopo essere stato ferito. Che sapesse ascoltare le confidenze di un’amica staffetta, che si stava innamorando del comandante partigiano.
Si chiamava Gianfranco Busani, per tutti Franco, e morì sulle montagne reggiane, nel grande rastrellamento nazista dell’Appennino emiliano, condotto con truppe alpine e reparti di sciatori per sbarazzarsi dei “ribelli” ancora presenti alle spalle della Linea gotica.
Una ferita dopo la morte
Franco fu ucciso assieme a tre compagni della Brigata “Italia”: Stefano Zanni, Attilio Capitani, Vincenzo Rinaldi, anche loro meno che ventenni. Al partigiano Franco, però, sarebbe toccata anche un’altra ferita. Quasi cinquant’anni dopo, il suo nome sarebbe stato incluso nell’elenco dei caduti fascisti del libro di Giorgio e Paolo Pisanò, “Il triangolo della morte. La politica della strage in Emilia durante e dopo la guerra civile” (Milano, Mursia, 1992).
Un errore scoperto per caso, dieci anni fa, durante la ricerca storica che ha portato alla pubblicazione di “Ritorno a Montefiorino” (Il Mulino, 2005). E che rivela, se ce ne fosse ancora bisogno, la superficialità, la predisposizione all’invenzione o esasperazione di episodi, l’uso impreciso dei dati da parte della pubblicistica di destra sulla violenza durante e dopo la seconda guerra mondiale.
In alcuni casi si tratta di storpiature di nomi (a causa delle quali, però, la stessa vittima può essere citata, e conteggiata più volte, con nomi diversi). Altre volte, come nel “Martirologio – Modena 1943-1946” di Alberto Fornaciari (edito per conto dell’Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi della Repubblica Sociale Italiana), si includono tra le vittime militi fascisti. Inclusi alcuni giustiziati dalla stessa Guardia repubblicana per diserzione e rapina, e altri caduti in combattimento, che semmai dovrebbero essere considerati vittime del Comando militare fascista, che li reclutò forzosamente e mandò allo sbaraglio in pericolose azioni di controguerriglia.
In altri casi vengono inclusi tra i “martiri” anche partigiani. Perfino decorati, come Gianfranco Busani (Medaglia d’argento al valor militare alla memoria).
Sull’uso disinvolto delle fonti da parte della pubblicistica di destra, molto è stato scritto. Parte della fortuna di cui hanno goduto queste pubblicazioni si deve, purtroppo, anche all’esaltazione acritica della Resistenza, che nei decenni non è mancata.
Le scelte fatte in vita
I morti meritano rispetto. Ma quello che continua a fare differenza, e deve farlo nella memoria – come scrisse Sergio Luzzatto nel suo “La crisi dell’antifascismo” (Einaudi, 2004) – sono le scelte che fecero in vita.
“Noi non siamo caduti fascisti”, direbbero, se potessero, Franco e altri partigiani infangati per “errore” o per strumentalizzazione.
Settant’anni dopo, tocca chi resta il compito di ricordare i morti dell’ultima guerra combattuta in Italia. Non come eroi o martiri, ma come persone che nella propria vita hanno fatto delle scelte. Che li distinguono gli uni dagli altri, e che significano molto anche per l’oggi.