Cammino, vado verso la stazione Centrale, a piedi è lontano, ma non lontanissimo, cammino di corsa, non mi guardo attorno.
Mentre cammino mi accorgo che io a quell’ora in via Padova, dove vivo, io non esco mai, se esco lo faccio in bici e vado veloce e non guardo nessuno.
Mentre cammino vedo delle macchine della polizia e un tizio con un fazzoletto in mano, sembra sangue, vado avanti, ci sono delle chiazze a terra, sangue, ho il cellulare in mano e scrivo: “sto arrivando in stazione a prenderti, aspettami”. Scrivo e scavalco, scavalco la pozza di sangue, un sangue rosso, che ci sono ancora dei rivoli, sangue umano, scavalco e passo oltre.
Ho appena scavalcato una pozza da mezzo metro di sangue umano.
Me lo dico in testa, ho il telefono in mano, il cuore mi si impietrisce.
Un gesto breve, come un colpo di spada mi trafigge, quella sensazione di lontananza, da quella strada, da quei piedi che rischiano di sporcarsi di sangue.
Leggerò poi il giorno seguente, si trattava di un regolamento di conti, si trattava di gelosia, di droga, si trattava di qualcosa, 31enne in fin di vita.
Quello che so io è che si trattava di me, che vivo da 20 mesi in Via Padova, vivo e lavoro al Parco Lambro.
Quello che so è che dove vivo io, ci si accorge in fretta che il mondo non è uguale per tutti, che io la morale non la voglio fare, che dal mio piano terra, vedo che è appena passato Natale e in dieci chilomentri vedevo due Natali diversi.
Quello della mia via e quello della sua prosecuzione, Corso Buenos Aires, che lì il sangue non lo vedi, ma c’è lo stesso.
Quello che so, è che non so nulla di più di quello che sento. Sento che non devo avere paura e che non devo essere indifferente, che il sangue umano non si scavalca e così nemmeno la dignità.
Quello che so è che non credo alle soluzioni miracolose e che non basta girarsi di schiena: anche se voi non ci volete vedete, noi, abitanti di via Padova, provenienti da tutto il mondo, noi ci siamo.