per gustare l’arte come fosse un piatto di pasta
Davanti a un’opera d’arte capita a tutti, prima o poi, di pensare: «Potevo farlo anch’io».
Che lo ammettiate oppure no. È capitato anche a me, a tredici anni: tutti i giorni, lezione dopo lezione, andavo in cattedra con il libro di storia dell’arte del Novecento, arrabbiata, a chiedere spiegazioni al mio professore del ginnasio. La domanda, ogni volta, tuonava così:
«Perché? Dov’è l’arte?». Oggi so che una risposta giusta non c’è. Esistono, però, tante piccole e grandi storie da raccontare, storie di persone (artisti, galleristi, amatori), di cose (d’arte) e di idee (della vita e del mondo). Perchè l’arte è sempre (stata) contemporanea, perché l’arte è flagranza, perché l’arte è qui, adesso, e ci guarda.
Venezia, 2005. «Oh! This is so contemporary, contemporary, contemporary!» cantilenavano, festanti e a passi di danza, i custodi-performer del padiglione tedesco in occasione della 51^ Esposizione Internazionale d’Arte.
A sceneggiare questo tableau vivant è Tino Sehgal (Londra, 1976), il più giovane artista mai chiamato a rappresentare la Germania alla Biennale di Venezia: un rituale in loop, una litania pop(ular), una sofisticata tautologia. L’arte per l’arte, insomma.
L’happening* (“accadimento”), di cui Sehgal è regista, irrompe nello spazio vuoto del salone ed esiste solo per il tempo in cui viene vissuto dagli astanti: in un mondo saturo di oggetti e di merci, la ricerca dell’artista si concentra sull’eccezionalità dell’esperienza, fisica e sociale, dell’arte. È vietata ogni documentazione e riproduzione (su Youtube o in immagini) poiché, qui, la proclamazione di contemporaneità di Sehgal si consuma nella tradizione orale, diviene racconto che sopravvive nella memoria di chi l’ha visto e di chi non c’era.
Che vi piaccia o no, l’arte contemporanea è qui e vi guarda. Non dovete appassionarvene controvoglia né mettervela in casa a tutti i costi. «So Contemporary!» è un’occasione per degustarla sperando che, attraverso la scelta di un linguaggio semplice e un’argomentazione priva di civetterie intellettualistiche, possiate abituare il palato e imparare a godervela a piene mani. Gusterete l’arte come mangiate la pasta, senza pensarci: a seconda dei gusti, criticherete quella scotta e apprezzerete quella al dente.
L’arte parla sempre della vita, è politica, è poesia. Non servono riti d’iniziazione né sacerdoti: il critico è uno come voi che ha fatto della curiosità e della passione il proprio mestiere. Non intendo inforcare gli occhiali da maestrina e impartirvi lezioni di storia dell’arte (contemporanea), ma raccontarvi piccole storie contemporanee senza un ordine cronologico, perché l’arte non s’incontra mai cronologicamente.
La domanda sul tavolo, ora, è: che cosa significa essere contemporanei? Di chi e di che cosa siamo contemporanei? Giorgio Agamben, nella lezione inaugurale del corso di filosofia teoretica allo Iuav (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), nel 2006, risponde così: «Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese […]; ma proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. […] Il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi […]”(G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2008).
Tutta l’arte è (stata) contemporanea: è un’espressione necessaria della realtà del mondo e del necessario tentativo di riconoscerne e interpretarne la complessità. Il capolavoro, del passato e del presente – si tratti della Nona Sinfonia di Beethoven, a Vienna nel 1824 o, un secolo dopo a Londra, di Anarchy in the UK dei Sex Pistols – è sempre avanguardia: rivoluziona i valori della tradizione e sovverte il gusto della società. Qualsiasi rivendicazione di “classicismo” tout court è mera nostalgia, fuga dal presente, rinuncia al futuro.
Essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio. Oramai l’ironia sull’incomprensibilità degli odierni linguaggi dell’arte non fa ridere più nessuno. Piuttosto è l’opera a mettere in discussione lo spettatore e il suo diritto di cittadinanza nel sistema dell’arte contemporanea. Ha un odore curioso, per stomaci forti. È quel tipo di uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia. Va attraversata come una città sconosciuta: naso all’aria, audacia e curiosità di sperimentare sapori insoliti.
L’arte contemporanea è ricerca e improvvisazione. Come la musica jazz. Non la puoi spiegare senza farne esperienza, non possiede una melodia che si possa cantare, invade lo spazio con le emozioni che ti lascia addosso. È la vicenda più appassionante che ti possa accadere in una vita intera, come la boxe per George Foreman. «La boxe è un po’ come il jazz» afferma il due volte campione del mondo dei pesi massimi. «E come l’arte contemporanea», aggiungo io. «Meglio è, meno la gente l’apprezza».
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