Parole in esilio

Una nuova rubrica, un racconto di parole
intraducibili in altre lingue

Vi sono parole che esistono solo se pronunciate in lingue d’origine. Parole che non possono essere tradotte, senza perderne l’incanto. Eppure, qualche volta, nell’ospitarle in una storia,
il loro taciuto significato si svela. E nella rubrica Parole in esilio, si snoderà un filo di racconti dedicati ogni volta a parole in lingue diverse, per restituire con curiosità quel voler conoscere la particolarità e la ricchezza dell’altrui.

 

Koi no Yokan 恋いの予感
Presagio d’amore – giapponese

L. ha tutte le caratteristiche per essere infelice, ma è cinico. E i cinici, forse si sa, sono felici indecisi, segretamente in attesa di essere salvati.
Lo pensa mentre si raccoglie in uno sguardo stretto e sente addormentarsi, sulla punta delle pupille, la noia. Con dita lunghe e disamorate si disegna il volto. Se fosse stato di un altro, più proprio lo avrebbe sentito.

A scaglie, sulle labbra, annida un sorriso da pescatore, quieto, come arreso. Ma talvolta, quasi che qualcosa lo scuota, un lampo di cruda ironia gli rompe il viso.
E rimane a guardarsi le nocche, sorridendo di quanto timore abbia l’uomo di trovarsi un giorno tanto ingenuo d’aver creduto d’essere qualcuno.

Si veste ed esce di casa, L., perché sente contrarsi lo sguardo, a rimanervi chiuso. Ha ancora tempo, prima di doversi arrendere alla consuetudine. Avesse saputo che un’amicizia richiede tante parole, avrebbe scelto, con cura, amici più taciturni.

Cammina, lasciando che il sangue gli si allunghi di pioggia e luce scheletrica. Coglie, ogni tanto, un riflesso bagnato sui vetri di passaggio. Vede volti schierati, mani nascoste, sorrisi negati. Ogni tanto anche qualche gesto d’amore. Più spesso qualcheduno di rassegnazione. Qualche volta anche L. sorride, perché sono attimi di sparuta bellezza, che si porta nascosti, sotto una pelle ben cucita di giorni qualunque.

La folla attorno a lui ha impeto e corpi acuminati, gli uni contro gli altri. Ad L. sfugge quel poco di volontà che gli accoglie la pioggia sugli occhi e i colpi duri di una calca ossuta e si decide a scendere sottoterra. Lì, almeno, i corpi dovrebbero rimanere immoti. E mentre, nella metropolitana, l’attesa acuisce la frenesia, L. curva il sorriso e, ancora una volta, si domanda quale persuasione abbia Wei, nella voce o quante parole superflue conosca, perché ogni volta riesca a sottrargli un sì.

L. non dice spesso sì e Wei ha un primato di consensi acquisiti, più per sfinimento che per ragione.
Si aprono le porte della metropolitana, L. entra e si siede. Scorre il buio, afferrato alle rotaie, lo porta al cuore della città. Lo aspetta, Wei lo ha avvertito o forse più che avvertito, minacciato, uno dei tanti divertimenti che danno alla loro generazione l’illusione di saper pensare. Quando Wei gli ha descritto, entusiasta, con il suo parlare rapido e noncurante, il caffè-concettuale, L. ha sentito solo due parole. Conoscere e conversare. Due, che gli ostacolano il pensiero. Non è valso alcun diniego.

Neppure l’arroventato sguardo che L. gli ha inflitto, convinto che a Wei si sarebbero bruciate le parole in bocca. Invano, avrebbe dovuto saperlo, poiché Wei parla più spesso di quanto non lo consenta agli altri. E dunque eccolo, con il volto raggrumato di pioggia e dispetto, doverosamente, verso quei suoi coetanei che per ventitré anni ha trovato equo sfuggire. Salvati loro, graziato lui. Ma forse, senza che lo avvertisse, qualche guizzo gli ha animato le costole, quando ha accettato. Come un corto incanto, scuotendogli le ciglia.

«Perché quel filo rosso, nonna?».
L. oscilla, mentre, con voce antica, qualcuno risponde:
«Racconta la leggenda, Jun, che ad ognuno sia destinata un’anima d’amore. Un’anima che rimane in attesa, nella morsa degli eventi, unita all’altra con un filo rosso, indissolubile e lunghissimo. C’era un uomo, una volta, che desiderava non aver più sete…»
«Poteva bere, se non voleva avere sete»
«No, era una sete inquieta, che toglie il sonno».
«Come gli incubi?»
«Come gli incubi. Solo che, per lui, era il sogno di un amore. Viaggiò a lungo, da ogni parte, ma non riusciva a trovarlo, l’amore. Troppo a lungo aveva cercato. Troppi volti aveva visto e nessuno gli era rimasto. Fin a quando un giorno, uscendo dal tempio, non incontrò una ragazza che stava intrecciando, tra i suoi capelli, un filo rosso come il sole».
L. sente il cuore perdergli un palpito. Ed i nervi dei polsi gli si addolciscono. Non sa quale vena gli si apra in petto, ma sente scorrergli, in tumulto, tra ossa e pensieri, un presagio d’amore. Ma subito si ricorda di dimenticare.
«La ragazza, quando lo vide, prese il filo rosso e lo legò attorno al mignolo sinistro del viaggiatore. E lui si innamorò».
«E perché lo hai tu?»
«Perché anche il viaggiatore legò al dito della fanciulla un filo rosso, così che chiunque sapesse che erano destinati l’uno all’altra».
«Allora il nonno si è sbagliato a sposarti!».

L. sente la voce antica rompersi in un riso addolcito. Ma non riesce a sentire nessuna risposta. Oramai è arrivato. Sente solo che la voce gli ha seminato nel petto un miraggio.
Ancora la folla lambisce ogni spazio vuoto, nuda di gesti. L. si sfila tra i nervi tesi di persone in attesa ed entra nel caffè. Altri volti, del tutto simili a quelli lasciati fuori, mormorano e non ascoltano. Non sembrano avere sete, né fame, né gioia. Stanno ad affilarsi di solitudine.

L’unica cosa che sanno, pensa L., è l’avere una terribile paura di dover rimanere soli con se stessi. Di scoprirsi vuoti, un poco più di ieri, un poco meno di domani. Si avvicina ad uno dei tavoli, solo per vedere vecchie conoscenze, che non si sarebbe mai augurato di rinnovare. Gli fanno segno di sedersi, ma L. si sente sospeso e non riesce a liberarsi dell’idea di non dover essere lì. Poi, nel cigolio di parole sconnesse, la luce si svuota di colpo. E nel nero cala un silenzio violento. L. si sente, per una volta, in pace. Qualche parola sorge, ma le voci sono sussurri. Quasi che il buio restituisca verità alle parole. O come se, infine, le facesse ascoltare.

Tolti i volti dalla luce esitano quei suoi coetanei. Più soli che mai, senza illusioni. Poi, d’un tratto, com’era svanita, la luce risorge e si ricompone pezzo per pezzo l’abbaglio. Solo L. si volta su se stesso, incompleto. E già vuole allontanarsi da quel cumulo di persone aggrappate ai tavoli ed ai convenevoli. Nella fretta allunga il passo ma d’improvviso la scorge. Lei si avvicina il dito al rosso di un sorriso mancato. Tace. Ad L. un tremore inconsulto scuote le foci delle braccia.
E gli appare, come un bagliore, un filo rosso che gli lega il dito. Gli sfugge un sospiro.
La guarda e sul fondo moro dei suoi occhi, vede levarsi la grazia di un amore innato.

 

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