Hungry Hearts

Hungry Hearts, di Saverio Costanzo. Con Alba Rohrwacher e Adam Driver, entrambi Coppa Volpi al Festival di Venezia 2014. Nelle sale da ieri

Di Irene Merli

New York. Andrew e Mina si incontrano la a prima volta in nell’angusta e sporca toilette di un ristorante cinese, in una situazione a dir poco imbarazzante. Ma da imbarazzo e risate tra i due nasce una storia d’amore che li porterà in breve al matrimonio. Per caso, senza volere, i due si ritrovano ad aspettare un bambino e da lì la decisione del grande passo, festeggiato in un ristorante di Coney Island.

Come tante altre, Mina all’inizio ha nausee. La differenza,è che lei inizia a mangiare sempre meno e dopo la prima ecografia si rifiuta di fare esami di controllo: potrebbero danneggiare il bambino. Dal colloquio con una veggente a pagamento, incontrata casualmente, la ragazza si convince che il suo sarà un figlio “speciale” e dovrà essere protetto da ogni impurità: chimica, atmosferica o tecnologica.

Appena il piccolo nasce si dedica totalmente a lui, rifiuta i consigli del pediatra (anzi, il fatto di avere un pediatra), inizia a coltivare legumi e ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non fa uscire il bimbo per paura del sole, dello smog e dei microbi, imponendogli un’alimentazione vegana incontrollata e obbligando chiunque venga a casa a lasciare fuori le scarpe, il telefonino al piano di sotto e a lavarsi le mani.

Il problema è che così il piccolo non cresce normalmente. Jude lo scoprensolo quando lo porta di nascosto da un pediatra che gli svela la gravità della situazione: suo figlio è denutrito e bisogna reagire in fretta. Mina però cede solo in apparenza alle sue richieste e il conflitto tra loro si fa più duro. Tanto da spingere Jude a dare gli omogeneizzati al bambino di nascosto, in una chiesa. E poi, una volta scoperto, a rivolgersi alla legge.

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Il disagio esistenziale è sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Lo abbiamo visto fin dal suo primo film, Private, una storia ambientata nella casa di una famiglia palestinese occupata all’improvviso da soldati israeliani. Ma ora gli anni sono passati e la sua regia, le sue scelte stilistiche sono diventati più forti e ancora più personali.

In Hungry Hearts, tratto da Il bambino indaco di Marco Franzoso (Einaudi), filma situazioni che sono allo stesso tempo estreme e quotidiane, immerse in un luce chiara, straniante, con un ritmo teso che ben si addice alla discesa all’inferno di questa coppia dolorosamente divisa tra l’amore e la paura, la fiducia e il sospetto, l’intimità condivisa e l’allarme.

Mina, orfana di madre da quando aveva due anni e con un padre in Italia che non sente più da lungo tempo, è una donna fragilissima ma dura come il ferro, che non cede di un millimetro sulle sue convinzioni e imbocca una strada senza uscita in nome della della proprietà esclusiva e totalizzante del piccolo.

Lei è la madre, solo lei sa cosa è meglio per un figlio che poco a poco diventa solo suo, e di nessun altro. Jude viene estromesso dalla condivisione che è condizione propria dell’essere genitori, e con lui chiunque altro.

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Perché accada questo non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. Basta ritenere di essere gli unici depositari della verità riguardo l’esserino in formazione, rifiutando qualsiasi confronto.

Qui Costanzo non vuole certo criminalizzare una scelta alimentare: la sua operazione si spinge assai più in là. Mina sprofonda senza un grido nella malattia quando diventa madre, ma la sua ossessione – la purezza incontaminata del bambino – avrebbe potuto prendere altre strade.

Il punto è che i “cuori affamati”, troppo affamati, con la pretesa dell’amore rischiano di divorare tutto quello che incontrano e soprattutto l’oggetto della loro adorazione. Risultato? Un film disturbante e bellissimo. Che sa raccontare senza giudicare e non risparmia le ferite. Tra cui un finale feroce.

 

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