Foto: Ilaria Romano.
Kobane e Mesher si guardano, si parlano, si aiutano. Se fossero due persone, la città del Kurdistan siriano assediata da più di cento giorni dall’Is e il villaggio del Kurdistan turco, distanti poco meno di due chilometri l’uno dall’altro, sarebbero fratelli, amici di una vita, anime gemelle.
Mentre a Kobane si combatte, dall’altro lato di un confine labile, da sempre quasi impercettibile, si guarda cosa succede fin dentro alle case, col binocolo diretto laddove si vedono salire le colonne di fumo. Si cercano notizie, si accolgono i profughi, i combattenti e le loro famiglie.
Una distesa di terra rossa le divide, segnata da un’altura morbida, diventata postazione di controllo dell’esercito turco. Un intero villaggio, che insieme ai centri abitati della provincia di Sanlurfa, oggi centro di accoglienza senza essere un campo profughi.
Ci sono bambini di tutte le età, che hanno smesso di andare a scuola, costretti a lasciare le proprie case, i più fortunati con i genitori. Ci sono anziani che hanno rappresentato il Pkk per una vita, e raccontano ancora della montagna, della latitanza, della resistenza contro il governo turco, e oggi piangono le nuove vittime di quella che per loro non è che l’ennesima prova di sopravvivenza.
Ci sono madri che hanno i figli in carcere, e che sono state a loro volta detenute, e oggi aspettano notizie dai giovani al fronte a Kobane. Combattenti a volte poco più che adolescenti, uomini e donne, che transitano da qui, il tempo necessario, per poi riattraversare il confine.
Alcuni raccontano la guerra, i compagni caduti, gli scontri a fuoco. La pietà di fronte al corpo senza vita di un nemico. Altri ricordano fratelli e genitori morti prima di Kobane, alla ricerca di un’autonomia che non è ancora arrivata, in Turchia.
Tutti aspettano, con orgoglio e paura allo stesso tempo, di avere notizie dai propri cari. Ogni giorno, ad ogni esplosione che si sente, ad ogni raffica di spari, ad ogni colonna di fumo che si vede alzarsi da un palazzo, si spera, si prega, ci si fa coraggio a vicenda. «Finirà la battaglia – si sente ripetere – ma per i curdi non significherà la fine della guerra».
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