Poveretti da compatire o esempi da ammirare, a seconda dei punti di vista, ma senza vie di mezzo
I nuovi eroi è un film di azione e fantascienza uscito nel 1992. Lo interpretano l’esperto di arti marziali Jean Claude Van Damme (nella foto sopra) e l’attore Dolph Lundgren. Se vi piace il genere, ve lo consiglio vivamente. La pellicola racconta la storia di un gruppo di soldati statunitensi rimasti uccisi durante la guerra in Vietnam che, dopo 25 anni, vengono rianimati apparentemente senza ricordo alcuno del loro passato, trasformati in cyborg anti-terrorismo e teleguidati da un’unità segreta militare conosciuta con il nome in codice di “Unisol”, Universal Soldier (che è anche il titolo originale del film). Ecco, come avrete ormai capito, sono loro “i nuovi eroi” al centro dell’intera storia di cui non vi svelo il finale. Per me, invece, “i nuovi eroi” sono i disabili. E in queste righe che seguono vi cercherò di spiegare perché.
Per una fetta di società ancora molto ampia, infatti, i disabili, a seconda dei punti di vista, sono mentecatti, poveretti, disgraziati oppure, all’estremo opposto, sono guide per tutti, esempi da seguire per il loro amore nei confronti della vita e per l’energia con cui la affrontano.
Personalmente, per quanto riguarda la prima concezione, non mi sento né un mentecatto né un poveretto, ma un disgraziato si. E non perché non ami la vita, ma perché avrei di gran lunga preferito non essere costretto su di una sedia a rotelle. La seconda idea che molte persone hanno dei disabili, e sulla quale mi concentrerò, contiene anch’essa una parte di verità. Mi spiego: è vero, ci sono disabili, in determinate condizioni fisiche, che hanno una grinta, un’energia vitale, una volontà molto marcate e che non solo vivono una tranquilla e serena quotidianità, ma compiono imprese eccezionali se si considerano le loro condizioni. Le riescono a compiere grazie ad una notevole forza interiore e io non posso che rallegrarmi delle loro gesta.
Certo, bisogna precisare che questo è possibile per dei disabili che sono sostenuti da delle capacità intellettive adeguate mentre, come mi è già capitato di scrivere, ci sono anche disabili che non possono offrire nulla alla società, non la loro simpatia, la loro intelligenza, nemmeno la loro compagnia perché, semplicemente, non sono nelle condizioni di farlo. Questo per ribadire, ancora una volta, quanto dietro la parola “disabili” ci sia un mondo complesso e ricco di sfaccettature. A spiccare al suo interno, invece, sono molto spesso coloro che affrontano la vita, come direbbe Pierangelo Bertoli, A muso duro, che non mollano mai, che non vogliono mai essere compatiti, che vincono sempre su tutto e che sostengono sempre gli altri, senza mai aver bisogno.
Questi sono “I nuovi eroi” che tendono a divulgare e pubblicizzare in prima persona il loro approccio alla vita. E che paiono essere i disabili che la società preferisce, dei modelli positivi. Una volta, per esempio, una donna mi ha detto: “Voi siete disabili. Eppure non vi drogate come fanno tanti che non sono in carrozzina e possono camminare”. A parte il fatto che esistono disabili che fanno uso di stupefacenti perché anche in questo, per fortuna, siamo uguali a tutti gli altri essere umani (senza per questo voler invitare nessuno a drogarsi), una frase del genere rivela quanto diffusa sia la retorica degli eroi.
Un altro esempio è stata la risposta che mi ha fornito un amico, anche lui in carrozzina, un giorno che era triste e gli avevo chiesto che cosa non andasse e se ne volesse parlare. «Non mi compatire» mi disse. Per natura, cerco sempre di tirare su di morale i miei amici, anche quelli che camminano con le loro gambe, mica solo quelli su una sedia a rotelle. A volte accettano di parlare con me, altre volte preferiscono non farlo, ma pochissime volte ho avuto una risposta come quella. E sempre da persone disabili. È difficile capirne bene le cause: l’orgoglio, una sorta di coda di paglia, la nevrosi che tutti stiano guardando te nei tuoi momenti duri, il terrore di essere giudicati fragili… Tutti aspetti che non si addicono a un eroe, tutte debolezze che un eroe non può sopportare, ma che sono umane.
Già, perché anche un disabile dovrebbe prendersi tutto il tempo di cui ha bisogno per essere triste, stanco, incazzato, insofferente, lamentoso e chissà cos’altro. A causa della sua disabilità o per mille altri motivi: Siamo come tutti. Non siamo eroi e quindi abbiamo la necessità di attraversare certi momenti per poi rialzarci.
Certo, questo non significa autocommiserarsi o arrendersi, ma semplicemente sfogarsi o ricaricare le batterie. Penso a me stesso. Mi ritengo una persona serena, socievole, abbastanza attiva, ma non mi nego (e mai mi negherò) la possibilità di lamentarmi della mia disabilità. Essere in carrozzina non mi piace. Lo dico, lo manifesto, lo butto fuori. Mi serve per stare meglio e ripartire.
Non mi piace perché essere disabile significa non coordinare bene il proprio corpo, essere spesso soli, non avere amici, non venire guardati dalle ragazze (non da tutte tutte, per fortuna), non poter sempre restare nella propria casa, vedere spesso negati i tuoi diritti e dover combattere contro le barriere mentali di un numero ancora troppo ampio di persone. Insomma, per me, la mia disabilità è la prima ragione di scontentezza. Sono riuscito a raggiungere una certa serenità proprio perché continuo a pensare che mi piacerebbe camminare e proprio perché, poiché me lo impedisce, odio la disabilità.
Può sembrare contraddittorio, ma è così. L’odio verso la mia condizione mi tiene in vita, mi rende sereno ed attivo nel mio quotidiano, mi fa essere cordiale nei confronti di chi, come me, è disabile, ma anche di chi non lo è. L’odio mi fa puntare alla normalità, non ad essere un eroe. E se nella nostra società certe barriere mentali fossero meno diffuse, forse sarebbe una normalità ancora più a portata di mano (anche se credo fermamente che nascere disabile rimanga una disgrazia).
Per concludere, torno ad usare il linguaggio del cinema con cui avevo iniziato, parlando de L’ottavo giorno, un film del 1996 interpretato da Daniel Auteuil e Pascal Duquenne. Racconta la storia di Georges, un ragazzo down che, pur mettendocela tutta nell’offrire amore e amicizia, non riesce mai ad ottenerli in cambio da chi non è disabile come lui. Succede in discoteca, per esempio. Il ragazzo è attratto da alcune coetanee che sono in pista e si avvicina loro per ballarci insieme, ma queste lo cacciano in malo modo, rendendo esplicita tutta la loro repulsione nei suoi confronti. È una scena, tra le tante, che spiega in maniera perfetta la sua condizione ed è uno degli episodi che, nonostante il suo entusiasmo, ad un certo punto fanno a dire a Georges: «Forse questo mondo non fa per me, quasi quasi torno da mamma».
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