Pochi giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, mentre un buon pezzo di mondo si commuoveva e dichiarava “#JeSuisCharlie”, un mio amico tunisino, che chiamerò A. e che ha vissuto in Francia 4 anni, postava sulla sua pagina Facebook un breve testo in francese.
“Io non sono Charlie – diceva pressappoco. – Io sono la Palestina derubata. Sono la Siria bombardata. Sono l’Africa che muore di fame e massacri. Non sono l’islamofobo Charlie, che ha insultato la mia religione, il mio libro sacro, il mio profeta”.
Pochi giorni dopo i naufragi del Mediterraneo dell’ottobre 2013, mentre un buon pezzo di mondo si commuoveva e gridava in “mai più”, un esponente del Governo italiano ancora in carica, che chiamerò A.A., rilasciava una dichiarazione alla stampa.
“Ora l’Europa – diceva in sintesi – deve impegnarsi a proteggere la frontiera italiana” e ancora, sempre, in sintesi, “va bene l’accoglienza ma gli italiani vengono prima”.
“Peccato i morti, ma io sto con altri morti”, dice A.
“Peccato i morti, e anche i vivi che cercano salvezza, ma prima ci siamo noi”, dice A.A.
Vorrei tanto sapere rispondere a entrambi i portatori di questi due “noi”. Identità tagliate con l’accetta, ma comunque in qualche modo contrapposte. Vorrei rispondere ad A., e ai tanti che credo ci siano come lui, che hanno sognato un’Europa e ne hanno trovata una così diversa. E vorrei rispondere non tanto ad A.A. in persona, ma a chi lo ascolta. E ascolta i tanti, e peggiori, coltivatori di odio, e si convince che la soluzione è che qualcuno debba venire prima di qualcun altro. Prima “noi”, ovviamente.
Un bell’articolo del New Yorker ricordava in questi giorni quanto sia assurdo richiamarsi a presunti patrimoni culturali occidentali, in un’Europa che cinque secoli fa riteneva giusto tutelare il pensiero dominante col tribunale dell’Inquisizione. Ricordava anche, il New Yorker, che, mentre piangiamo i morti di Parigi, la “nostra” violenza continua indisturbata. Su quelle vittime “altre” si piangono molte meno lacrime, come poche se ne piansero su Menocchio, condannato dall’Inquisizione per le sue idee, e riportato in vita da Carlo Ginzburg che ne ha raccontato la storia.
Ma perché non possiamo essere contemporaneamente con le vittime di Charlie Hebdo e con i profughi (e le vittime) della crisi siriana? Con la libertà di satira e con gli oppressi, siano in Palestina, in Africa o altrove?
Perché non possiamo, come ha detto bene Luisa Muraro nel suo “Mercato della felicità”, provare a muoverci “dove la forza non ha l’ultima parola, dove non si tratta di competere per il poco che c’è ma di moltiplicarlo, dove l’esigenza non è di spartire il potere, ma di uscire dalla sua logica di contrapposizione e complicità, dove i guadagni, condividendoli, ce n’è di più per ogni uno e una”?
Insomma incontrarci e ascoltarci tra esseri umani, con le identità che ognuno (e ognuna) si porta nel corpo e nella storia, ma senza doverle per forza contrapporre.
Lo ha scritto bene Paola Caridi dopo l’attentato del 7 gennaio, intitolando il suo intervento #IoNonSonoInGuerra: “Noi siamo già in guerra. In una guerra non dichiarata che non è, però, la mia.”.
Meglio incontrarsi, ho già detto. Ma se guerra deve essere, allora scelgo la divisione del mondo che faceva Don Lorenzo Milani nella sua lettera ai cappellani militari, “L’obbedienza non è più una virtù”. “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri miei stranieri.”
Eppure prima di schierarci dovremmo capirci. E quando le categorie della ragione si ingarbugliano, ci soccorre, per incontrarci e ri-conoscerci, la sintesi dell’arte, delle storie, della poesia.
La storia di A. io l’ho incontrata per la prima volta a Lampedusa, nel 2011. Sbarcato – al secondo tentativo – dopo le “primavere arabe”. “Trattenuto” per due mesi in un campo in Sicilia, in attesa dei documenti temporanei che poi gli avrebbero dato con la cosiddetta “Emergenza nord Africa”. A. aveva 28 anni e sognava Parigi, come io avrei potuto sognare Londra, o Berlino. Ci è arrivato, a Parigi, dopo oltre due mesi di peripezie. Ha speso un paio di migliaia di euro per un itinerario che io e qualsiasi europeo possiamo fare con un decimo della cifra e un cinquecentesimo del tempo.
A Parigi, A. ci ha vissuto quattro anni. Nella cintura di Parigi: dagli Champs Elysées, un paio d’ore di treno. Lavori più o meno precari. Un amore sbocciato e poi finito male. Un permesso di soggiorno rinnovato. Notizie frammentarie scambiate su Facebook. Richieste frequenti di “Quando vieni a trovarmi”, risposte evasive tra impegni che si accavallano. Ci siamo sentiti spesso, nel nostro francese un po’ sgrammaticato ma pieno di desiderio di capirsi.
In dicembre, A. mi ha scritto di essere tornato in Tunisia. Pochi giorni fa ha mandato la foto della sua nuova fidanzata, giovanissima, pelle candida, foulard nero stretto sui capelli e attorno al volto, occhioni scuri carichi di kajal. Ho chiesto il nome della ragazza, ho detto che era molto bella. Ho chiesto se aveva ancora amici a Parigi, e cosa dicevano. Ho ricevuto risposte evasive, come le mie sul “Quando vieni a trovarmi”.
Avrei voluto essere più diretta, chiedere senza giri di parole di quella frase postata dopo l’attentato, provare a spiegare quello che credo di pensare io. E soprattutto ascoltare. Mi sono arresa davanti al mio francese non abbastanza robusto, davanti a un mezzo di comunicazione poco adatto ad argomenti delicati.
Poi le parole di A., del suo post che si dissociava dal coro di “Je Suis Charlie”, mi sono risuonate in una poesia di Les Murray (pubblicata dal Domenicale del Sole 24 Ore di qualche settimana fa).
“No. Non da me. Mai. / Non un passo nella vostra marcia, /non una nota nel vostro unisono”, dice Murray. E già penso a “quei cappotti del potere tra il popolo”, ai governanti ipocriti che sfilano alla manifestazione di Parigi e con l’altra mano firmano l’incarcerazione di un giornalista.
E ancora: “Qualunque sia il vostro discrimine di classe/ io provengo da una assai più in basso, / un paria per le mode da voi escogitate ed/ imposte.” E ancora: “Le prime dimostrazioni/ che vidi, prima degli striscioni, / erano contro di me”. E infine: “Il vostro ordine del mondo l’ho scoperto allora”.
E allora, come immaginarne un altro? Un ordine del mondo che sia “nostro”, di tutte e di tutti?
Certo è un’utopia. Ma per cominciare ci servono parole più semplici, un linguaggio più chiaro, l’occasione e la voglia di ascoltare.
Per capire come mai A. si lascia convincere che il suo problema siano (anche) le vignette.
Per capire come mai tante, troppe persone in Italia e in Europa si lasciano convincere che il loro problema sia (anche) la presenza di A. in Europa.
O il volontariato in Siria di due giovani ragazze che chiamerò G. e V.
E non invece la corruzione. Le violenze ingiustificate della polizia contro migranti o manifestanti. L’individualismo perverso in cui siamo sprofondati. O il fatto che in Italia un terzo degli adulti non è in grado di comprendere un testo scritto che riguardi fatti collettivi importanti per la propria vita quotidiana.
Dobbiamo incontrarci di nuovo per capirci davvero e cercare insieme una soluzione. Per conoscerci, ri-conoscerci, e sognare insieme qualcosa di diverso.
Un mercato che sia prima luogo di scambio che di sopraffazione, e dove le persone vengano sempre, sempre prima dei profitti.
Un Mediterraneo che sia un mare da navigare e non una frontiera o un cimitero. Scuole pubbliche. Diritti. Servizi dati a ciascuno secondo il bisogno. Umanità.
Buttiamo giù un p’ di frontiere e arricchiamoci insieme, vorrei dire ad A. Vorrei dirlo perfino ad A.A., chissà che non capisca che alla fine conviene anche a lui. Resistiamo alla paura. E freghiamoli, quelli che si arricchiscono e raccolgono i voti, e i profitti, mettendoci gli uni contro gli altri.
[L’idea di questo testo, che nel frattempo è molto cambiato, è nata dalla domanda di partecipazione a un progetto, “Integrazione Clandestina”. Un viaggio in barca a vela (di cui Q code magazine ha già parlato qui – link) tra i luoghi simbolo dell’immigrazione nel Mediterraneo. A me sembra un bel tentativo, piccolo, ma pieno di senso, per cominciare a buttare giù le frontiere che ci dividono, e cercare nuovi linguaggi. Per sostenere la mia candidatura al progetto si può seguire questo link e cliccare “mi piace”. ]