Di solito, i siriani che transitano per Milano restano poco. Tempo di rifocillarsi nelle strutture, di organizzare il viaggio per il Nord Europa e via, verso una nuova vita. Alcuni si fermano addirittura una notte, in media però tre giorni. Ecco, “in media” perché esistono delle eccezioni.
Capita infatti che alcune famiglie, quelle più numerose, necessitino di più giorni per partire: vuoi perché ci sono tanti bambini piccoli, vuoi perché servono più soldi, vuoi perché i trafficanti fanno storie. Questo è successo ad una famiglia di tredici persone che si è fermata nel nostro centro per tre settimane.
I piccoli erano i primi sorrisi che vedevamo al mattino, le donne sempre gentili e discrete, gli uomini estremamente rispettosi e collaborativi con gli operatori. Vederli andare via, carichi di speranza e gratitudine, è stato come se una parte integrante della struttura si fosse staccata.
L’altra categoria di ospiti che si ferma per più tempo è quella dei ragazzi/uomini singoli. Scappati dalla Siria, lasciandosi indietro famiglia e affetti, sono giunti da noi in una condizione di estrema precarietà materiale, ma soprattutto emotiva. Le famiglie, perlomeno, sono unite e si tengono ben strette l’uno all’altro. Loro no. Non hanno nessuno a cui aggrapparsi, nessuno con cui piangere o ridere. Ecco dunque che fanno amicizia fra di loro, un’amicizia vera, fraterna.
Soprattutto fanno amicizia con noi. È il caso di Khaled, un ragazzo di 22 anni, di Homs, che è arrivato da noi all’inizio di agosto. Da solo, senza soldi, con la sola inesperienza verso la vita tipica della sua età e dunque “bloccato” a Milano perché privo dei mezzi materiali e dei contatti giusti per partire.
Per combattere la noia, Khaled è diventato un prezioso aiutante del centro: durante le distribuzioni dei pasti, per aiutare i nuovi ospiti ad integrarsi. Nelle ultime settimane, ho trascorso più tempo con lui che con la mia famiglia! Sempre gentile e premuroso nei miei confronti – guai a non chiamarlo se avevo bisogno – stavamo sempre insieme ed è stato forse inevitabile che si prendesse una cotta per me. Chissà, forse anche questo per sconfiggere la noia, per avere “un buon motivo” per restare al centro, per sentirsi – dopo tutto quello che ha passato – ancora umano. La sua presenza era una certezza.
“Era”, perché Khaled, quasi all’improvviso, è partito. Appena giunto un suo amico dalla Siria – indescrivibile la gioia quando si sono ritrovati – Khaled ha avuto l’opportunità di partire con lui per la Danimarca. Nel momento in cui mi ha dato la notizia, il suo viso si è fatto cupo. «Non sei felice di partire?», gli chiesi. «Come posso essere felice? Non voglio partire. Io ti amo moltissimo» mi rispose.
Khaled mi ha proposto di andare con lui, di lasciare tutto e di costruirci insieme una nuova vita, come nelle più belle storie d’amore. Poi, ragionando, mi ha chiesto di aspettare di ottenere la cittadinanza, per poi fare il ricongiungimento, come forse potrebbe essere la più attuale storia d’amore!
Mi ci è voluta la sera intera per convincerlo a non farsi sfuggire questa occasione, facendo attenzione a non ferire i suoi sentimenti e a trattenere le mie lacrime. Mentre parlavamo, Khaled mi ha regalato la sua collana, che teneva sempre: «Così ti ricorderai di me».
Quando stamattina l’ho salutato, non è stato per nulla facile e le lacrime sono scese come un torrente in piena. La sensazione è, da una parte, di estrema gioia per il fatto di vedere questo ragazzo, così giovane, che finalmente va verso un futuro sicuramente migliore. Dall’altra parte, però, è una sensazione di perdita, di mancanza, di vuoto, perché questa volta è una parte di ME che si stacca.
Ecco chi sono le persone che arrivano a Milano: famiglie, bambini, ragazzi che – con le loro storie, le loro personalità – ci possono arricchire più di qualsiasi testo scolastico, manuale o altro. E che, e ne sono certa, attraverso il modo in cui le strutture e gli operatori di Milano hanno deciso di accoglierli, porteranno con loro un ricordo dolce e prezioso del nostro Paese.
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