tratto da Nena News
Il braccio di ferro tra Israele e Nazioni Unite vive una nuova fase. Come accaduto in passato, anche stavolta è la Striscia di Gaza il terreno di confronto tra Tel Aviv e il Palazzo di Vetro. Questa mattina il premier Netanayu ha chiesto l’archiviazione della commissione Onu incaricata di indagare eventuali crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano nei Territori Occupati dal 13 giugno 2014: allora cominciò un’ampia operazione militare contro Cisgiordania e Gerusalemme per ritrovare i tre coloni scomparsi, che a Gaza si trasformò in meno di un mese nella terribile offensiva Margine Protettivo.
La richiesta arriva a stretto giro dalle dimissioni presentate dal capo della commissione, il canadese William Schabas, che ha lasciato l’incarico dopo le accuse mosse dai vertici politici israeliani: secondo Tel Aviv la commissione avrebbe operato guidata dall’agenda politica dell’Olp perché in passato Schabas offrì una consulenza all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Un’accusa che Netanyahu ha ripetuto oggi (dopo aver definito il team “comitato dei diritti dei terroristi” quando fu formato lo scorso agosto): la commissione create dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu è “un corpo anti-israeliano” che non ha niente a che vedere con i diritti dell’uomo. «Si tratta della stessa commissione che nel 2014 ha preso più decisioni contro Israele che contro Iran, Siria e Nord Corea messi insieme. Dovrebbero indagare Hamas, non Israele».
Schabas, da parte sua, in una lettera consegnata alla commissione, ha dichiarato la sua intenzione di farsi da parte per evitare strumentalizzazioni del rapporto finale sull’attacco contro Gaza, che sarà reso pubblico a marzo. Nella missiva, l’accademico si è difeso affermando che l’opinione legale che scrisse per l’Olp nel 2012 (e per la quale fu pagato 1.300 dollari) era un mero consiglio legale che ha fornito in passato ad altre organizzazioni e altri governi.
In ogni caso, il rapporto della commissione non sarà incentrato solo su Israele, ma anche sulle eventuali violazioni compiute da Hamas. Ma tant’è, Israele preferisce evitare qualsiasi critica. Non certo una novità: Israele non ha mai accettato nemmeno in passato di farsi monitorare da agenzie dell’Onu, spesso impedendo ai membri delle varie commissioni Onu di mettere piede nel paese.
È successo anche stavolta: Tel Aviv ha da subito dichiarato di non voler collaborare con il team delle Nazioni Unite, nella convinzione che i risultati ostili a Israele erano già stati previsti e a novembre ha impedito ai suoi tre membri di entrare nella Striscia. Eppure in passato, seppure alcune commissioni Onu e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza si siano espresse contro le politiche israeliane, niente è mai successo: nessuna sanzione è stata mai applicata, né pressioni internazionali indirette sono state compiute su Tel Aviv.
Probabilmente neppure i 2.200 morti di Gaza della scorsa estate (di cui l’80% civili, secondo l’Onu), i migliaia di feriti, le 90mila case distrutte o danneggiate, le bombe su ambulanze, ospedali e rifugi Onu faranno la differenza. Il ministro degli Esteri Lieberman festeggia, ritenendo le dimissioni di Schabas un’ammissione di colpa: «Neppure il più grande ipocrita negli enti internazionali può ignorare che mettere Schabas a indagare Israele è come mettere Caino a indagare l’omicidio di Abele».
Reazioni sono giunte anche dall’Autorità Palestinese che torna ad accusare Israele di intimidire e screditare chiunque prenda posizioni che possano costringere Israele ad assumersi le proprie responsabilità in ambito internazionale. Ma, come sempre, a pagarne le spese è ancora una volta la popolazione civile di Gaza, alle prese con lo stallo della ricostruzione, mai ripartita: ieri l’Arabia Saudita ha annunciato un passo concreto, ovvero la consegna (già avvenuta) di 13,5 milioni di dollari all’agenzia Onu Unrwa, da distribuire in contanti a 10mila famiglie la cui casa è stata danneggiata dai raid israeliani. Il problema per Gaza non è però la mancanza di denaro, ma la mancata consegna dei materiali da costruzione. Ad oggi Israele non ha ancora avviato la distribuzione dei materiali per ricostruire Gaza.
La tensione tra Israele e Gaza resta alta. E mentre sale anche quella con il Palazzo di Vetro, si allenta quella con la Giordania con cui Israele ha firmato un trattato di pace nel 1994.
A causa degli attacchi, le violazioni e le provocazioni israeliane contro la Spianata delle Moschee compiute dalla scorsa estate, Amman aveva ritirato il proprio ambasciatore da Israele. Ieri il rappresentante diplomatico giordano, Walid Obeidat, è tornato a Tel Aviv, dopo tre mesi d’assenza ufficialmente perché la calma sembra essere tornata intorno al sito religioso, di cui la Giordania è custode.
Secondo il portavoce del governo giordano, al-Momani, la situazione alla Spianata è migliorata, Israele permette l’accesso ai fedeli musulmani e ai turisti. Insomma il messaggio inviato dalla Giordania con il ritiro dell’ambasciatore è stato ben compreso. Forse a intervenire nella decisione di re Abdallah è stata anche la necessità di abbassare le tensioni con l’alleato comune, gli Stati Uniti, dopo i tentativi di mediazione di Amman con lo Stato Islamico per la liberazione del pilota al-Kasasbeh. Lo scambio tra prigionieri, proposto dall’Isis e accolto da Amman, seppur non ancora realizzato, ha innervosito Washington. Riaprire a Israele potrebbe dare un po’ di respiro alla Giordania.