La Grecia vista dal Portogallo

Lisbona guarda ad Atene
tra indifferenza, preoccupazione e interesse

da Lisbona

Nei giorni scorsi, mentre Alexis Tsipras formava il governo in Grecia e gli spagnoli si preparavano all’ennesima imponente manifestazione di piazza organizzata da Podemos (la Marcha del Cambio del 31 gennaio), la ministra portoghese delle Finanze, Maria Luís Albuquerque (sulla cui carriera in vari organismi sovranazionali i portoghesi dovrebbero puntare i loro risparmi, se ne avessero e se i broker accettassero questo tipo di scommesse) volava a Bruxelles a sondare i partner europei sull’ipotesi di anticipare il rimborso della somma che il Portogallo deve al Fmi.

Un anticipo che andrebbe fatto con il consenso, appunto, degli altri creditori continentali. E questo mentre l’omologo greco Varoufakis ribadiva il rifiuto a dialogare con la troika (quindi con il Fmi), perché la questione greca è politica ed europea e va risolta politicamente all’interno di questa strana “Unione di fatto” che è l’Ue.

Ad Atene inoltre si bloccavano le privatizzazioni in corso, mentre a Lisbona i lavoratori della compagnia di bandiera Tap, unico asset strategico nazionale ancora invenduto, scioperavano sotto la pioggia contro una privatizzazione annunciata da tempo e oramai imminente. Questo il montaggio incrociato della crisi dell’Eurozona vista dagli ultimi che non saranno mai primi, ma ogni tanto soffrono della solitudine dei numeri primi.

A Lisbona le reazioni alle notizie dalla Grecia sono state tutte un po’ autistiche. Il governo ha sostanzialmente risposto: noi tireremo diritto. E netto, persino piccato, è stato il rifiuto del premier Passos Coelho all’ipotesi di una conferenza sul debito lanciata dai greci, come se i portoghesi non avessero proprio nulla, non dico da guadagnarci, ma almeno da ascoltare e da dire in un incontro del genere.

Il leader socialista António Costa, che i sondaggi danno come vincitore alle elezioni del prossimo autunno (ma con percentuali, e quindi alleanze, ancora tutte da vedere), ha tenuto a precisare che il suo Ps non è il Pasok, ma non è nemmeno Syriza; teme che a Bruxelles gli sbattano la porta in faccia quando dovrà andarci per la prima volta da premier e dice che il debito portoghese è sostenibile (è certamente più basso, però sul fatto che sia sostenibile le scuole di pensiero divergono).

Il resto dell’opposizione di sinistra invece ha esultato come fossero tutti Syriza; cosa comprensibile, ma non del tutto giustificabile. Quelli, per esempio, che in maniera sempre più insistente parlano di uscita dall’Euro non hanno colto la sfumatura geniale del discorso di Tsipras, che da anni sostiene: fuori? Solo se ci cacciate via. È strano come proprio certi comunisti duri e puri alla fine difettino di una dose minima di prevenzione ideologica, quella che ti dovrebbe far capire subito che, se a gestire il distacco saranno gli stessi che hanno guidato l’unione monetaria, a pagarne gli altissimi costi in uscita saranno gli stessi che hanno pagato all’ingresso. E quindi il referendum andava fatto prima, non ora.

Altri problemi sorgono quando le cose si fanno prima e non reggono dopo. Un Syriza il Portogallo ce l’aveva dal 1999 e si chiamava Bloco de Esquerda. Era nato unendo diversi piccoli movimenti e varie forti personalità che nel mondo politico, accademico e giornalistico vantavano percorsi di prestigio, ma anche di assoluta indipendenza e marginalità.

La sua nascita ha rappresentato uno scossone positivo per la politica portoghese e i risultati elettorali, fino a qualche anno fa, l’hanno confermato. Negli ultimi tempi il Bloco si è sfaldato, per motivi vari, esterni e interni alla “vita segreta delle piante” e dei partiti (la scomparsa di un leader carismatico come l’eurodeputato Miguel Portas, ma anche una scissione che probabilmente è la prima, nella gloriosa storia del movimento operaio, consumatasi su Facebook). E se alle recenti elezioni europee erano già spuntate delle sigle nuove, dalla fragile costola del BE ne nasceranno delle altre per le prossime legislative; fra queste un Podemos portoghese, che forse fa meno paura del congenere spagnolo agli uomini in nero della troika.

A questo proposito, mentre Passos Coelho rispondeva sprezzante alle proposte greche gli toccava pure difendersi dalle bacchettate del Fmi. Il 30 gennaio veniva infatti reso noto il primo rapporto sul Portogallo post-troika.

Nel testo si esprimono seri dubbi sulle possibilità di raggiungere la meta del deficit di quest’anno, ma soprattutto si criticano le recenti derive “populiste” (non parlavano di Grillo, ma di un timido aumento del salario minimo e altre piccole misure non condivise), che rischierebbero di accentuarsi man mano che si avvicina l’appuntamento elettorale.

Lo schiaffo ha lasciato il governo in un tale stato di choc che a difenderlo ci ha dovuto pensare un altro uomo del Fmi, il nostro ex commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, oggi direttore esecutivo con responsabilità su Grecia, Italia e Portogallo. In una lettera diffusa nelle stesse ore ha precisato: «Le elezioni sono una caratteristica dei regimi democratici e non devono essere presentate come elementi distruttivi dei processi di riforma». E sì che ogni tanto rischiamo di dimenticarcelo.

 

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