Sei anni fa, il 9 febbraio 2009, in mezzo a troppe voci politiche e non solo, moriva Eluana Englaro.
Sei anni fa, dopo le morti soffertissime di tanti tra cui Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby, divampava il dibattito sul fine vita.
Oggi, nonostante tutto quello che è stato, il diritto all’autodeterminazione terapeutica nel nostro paese viene ancora messo in discussione.
Di testamento biologico, in Italia, tanto si è parlato negli ultimi anni soprattutto in coincidenza con (e a partire da) alcuni casi che hanno occupato le pagine del dibattito giuridico, politico e pubblico. Come spesso accade però, problematiche che emergono in certi momenti con incredibile forza e spinta finiscono per essere via via, se non dimenticate, per lo meno accantonate in virtù di nuovi, e presumibilmente più esaltanti, dibattiti.
Questo è quello che è successo al Disegno di legge in materia di Dichiarazioni anticipate di trattamento, ancora in attesa, dal 13 luglio 2011, di completare l’esame parlamentare.
Quando si parla di testamento biologico o di dichiarazioni anticipate di trattamento ci si riferisce all’atto, scritto, in cui dovrebbe essere possibile indicare quali cure mediche e trattamenti sanitari vogliamo che ci siano applicati nel caso in cui la situazione concreta non permetta ai medici di chiedercelo direttamente.
Ciascuno di noi ha il fondamentale diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, ossia il diritto di assumere liberamente le decisioni che riguardano la propria salute. Questo diritto deriva dall’art. 32 della Costituzione che garantisce il diritto alla salute e afferma che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento sanitario, a meno che non sia una legge a prevederlo (come avviene, per esempio, con le vaccinazioni obbligatorie).
L’attuazione pratica di questo principio avviene per mezzo dello strumento del consenso informato. La volontarietà dei trattamenti sanitari stabilita dalla Costituzione e il consenso informato, che ne è attuazione pratica, sono concetti che si presentano come due facce di una stessa medaglia.
I due concetti creano un delicato equilibrio che permette all’individuo di esprimere le proprie scelte nel campo dell’autodeterminazione terapeutica e gli permette di tracciare autonomamente i confini del rispetto della propria dignità e della propria persona. Ma non sempre il paziente è in grado di fornire questo consenso, perché potrebbe trovarsi in un momentaneo stato di incapacità di intendere e volere.
Ed è in casi come questi che un testamento biologico potrebbe fare la differenza.
I progressi tecnologici applicati alla scienza medica, l’accrescimento delle prospettive di vita e le nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche hanno reso necessaria una riflessione su queste tematiche, dal momento che oggi è possibile tenere in vita una persona in modo parzialmente o totalmente artificiale.
Storie come quelle di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby hanno portato l’attenzione di tutti sulla possibilità di dissentire da trattamenti terapeutici cosiddetti salvifici (o salvavita), ossia quelle terapie mediche dalla cui attivazione o prosecuzione dipende la vita del paziente.
Il nostro diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica arriva fino a permetterci di esprimere il desiderio di non essere sottoposti a una tale terapia, anche se dalla realizzazione della nostra richiesta deriverà la morte?
Nei casi in cui la libera scelta dell’individuo di non consentire a un determinato trattamento terapeutico comporti, come certa e inevitabile conseguenza, la sua morte, il problema che viene sollevato è quello della disponibilità o indisponibilità del diritto alla vita. Abbiamo, cioè, la libertà di decidere liberamente e totalmente cosa fare della nostra vita e della nostra morte?
Se nessuno può essere obbligato a sottoporsi a un trattamento sanitario e tutti abbiamo il diritto costituzionale di consentire o dissentire alle cure mediche dovrebbe essere possibile anche rifiutare, in maniera consapevole, un trattamento sanitario salvavita.
Una scelta di questo tipo dovrebbe essere possibile in un’ottica di tutela di un diritto di ciascuno di scegliere che tipo di vita desidera vivere: il diritto dell’individuo di valutare, entro dei confini che la legge dovrebbe stabilire, quale qualità di vita ritiene accettabile. Ciò significherebbe dare a ognuno la libertà di scegliere per sé, senza attribuire però a nessuno il diritto di decidere per gli altri.
Il dibattito si accende quando sulla bilancia, accanto alla libertà di scelta, si mette il concetto di sacralità della vita. Il problema è noto, ed è lo stesso che si incontra in molti altri temi (per esempio i matrimoni omosessuali). Il nostro ordinamento è di fatto fortissimamente influenzato dai valori della religione cattolica, e questo di per sé non deve essere per forza etichettato come il peggiore dei mali. Lo diventa, però, quando i valori diventano imposizioni, verità assolute e valide per tutti, cattolici e no.
Non lo si dirà mai abbastanza, ma il nostro è uno Stato laico, dove laicità (per usare le parole della Corte costituzionale) implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.
Questo significa che in realtà, sulla base del principio di laicità dello Stato, non sarebbe possibile effettuare ragionamenti interpretativi, o addirittura discussioni in sede legiferante, che partano dal concetto di sacralità della vita umana derivante dalla religione cattolica.
Lo Stato dovrebbe ragionare da una posizione di equidistanza da tutte le confessioni religiose o le morali. Lo Stato non può “nascondersi” dietro a concetti religiosi che rispecchiano la morale solo di una parte, magari anche ampia, della popolazione, per disciplinare situazioni che si rifletteranno su tutti i cittadini.
La posizione di equidistanza, e non indifferenza, dello Stato non solo nei confronti delle confessioni religiose, ma anche più in generale delle diverse posizioni culturali, implica la necessità che l’ordinamento garantisca le stesse possibilità di esplicare la propria personalità a ciascun soggetto in espressione della sua religione o cultura.
La sacralità della vita non deve essere interpretata in una visione religiosa, ma piuttosto in una plurale: per qualcuno la vita è sacra a prescindere da tutto, per altri la sacralità della vita risiede in altre cose come la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico (…) la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. (parole di Piergiorgio Welby nella lettera aperta che il 24 febbraio 2009 inviò al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano).
Secondo la Corte costituzionale, la Costituzione garantisce il principio di laicità dello Stato caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse, e quest’uguaglianza può essere garantita solo se le discussioni legislative prendono il via da concetti che non siano espressione di una data cultura, religione, o credo.
Uno Stato laico dovrebbe assicurare gli stessi diritti e le stesse possibilità di realizzazione a tutti, qualunque sia il loro credo religioso. Non ci stancheremo mai di dirlo: emanare leggi sulle coppie di fatto, sui matrimoni omosessuali o sul testamento biologico non significa sminuire il valore della famiglia o quello della sacralità della vita per coloro che credono in questi valori.
Nella legge devono poter trovare spazio tutti i valori, compatibili con i principi costituzionali, emergenti dalla società.
Lasciando da parte le convinzioni religiose e morali in generale, per quanto questo possa essere, in casi come questo, difficile, ci sembra che l’ordinamento debba farsi carico di tutelare la vita dei singoli in una visione pluralista, e non limitarsi a uno specifico concetto di vita.
Questo significa, a nostro avviso, che l’ordinamento deve mettersi nella posizione di disciplinare il maggior numero di richieste – s’intende, costituzionalmente legittime – dei cittadini circa l’esplicazione e l’esercizio del diritto alla vita.
Sempre a nostro avviso, questo non può che portare a sostenere un concetto di qualità della vita piuttosto che uno di sacralità della vita.
Parlando, infatti, in questi termini non s’imporrebbe nessuna posizione, ma si deciderebbe di disciplinare il maggior numero di possibilità di esercizio del diritto alla vita, così da tutelare le diverse concezioni di qualità della vita.
Si passerebbe così dalla garanzia del diritto alla vita, a una più specifica tutela e difesa del diritto alla qualità della vita. Questo diritto non escluderebbe nessun concetto di sacralità della vita, ma dovrebbe essere interpretato come una categoria generale, dove ciascuno può essere libero di realizzare la propria qualità della vita.
Solo così sarà tutelato – sempre, ovviamente, entro i limiti stabiliti dalla legge – sia chi intende la vita come sacra e intangibile secondo il proprio credo o morale, sia chi ritiene che la vita debba essere, per il singolo, un bene disponibile. E che a certe condizioni può diventare meno desiderabile di una dignitosa morte.
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