e una fine dolorosa e solitaria
Lunedì 12 febbraio 2001, alle porte di Roma, l’alba sta conquistando lentamente il suo posto al sole. È una giornata fredda, un lunedì imbronciato. Come i passeggeri del Roma – Civitavecchia, che portano al lavoro il rancore per un fine settimana passato troppo in fretta.
Il macchinista, all’improvviso, vede una figura che si muove sui binari. Come oscillando, dichiarerà poi alla polizia. Frena, ma è troppo tardi. L’impatto è sordo, un tonfo vuoto. I passeggeri si svegliano di botto, sballonzolati dalla frenata improvvisa, all’altezza di Porta Maggiore, due chilometri dalla Stazione Termini della Capitale.
Circa settant’anni, pantaloni grigi, camicia bianca e un cappello beige. Il cadavere giunse verso mezzogiorno all’obitorio di Roma. Nessun documento addosso, viene registrato come ‘sconosciuto’. Un senzatetto, magari ubriaco, pensano i poliziotti.
E invece no, non era sconosciuto affatto. Perché quell’uomo travolto all’alba da un treno locale è Tiberio Mitri, uno dei migliori pugili italiani della storia. Un boxer forte, un uomo molto fragile. Che negli ultimi anni perdeva ogni giorno un pezzo della sua vita, come se di ogni incontro sostenuto (101 in carriera) gli rubassero un round alla volta. L’ultimo avversario si chiama Alzheimer, come fosse un pugile tedesco, solido, cattivo.
Da tempo, ormai, Tiberio esce di casa in stato semi-confusionale. Ma nel quartiere Trastevere lo conoscono tutti quel vecchio pugile, poco più che settantenne, ma che sembra molto più vecchio. Lo accolgono, lo riaccompagnano a casa, lo aiutano con la spesa. Solo che quel 12 febbraio, è scivolato fuori di casa molto presto, poca gente in giro. E non l’ha potuto aiutare nessuno.
Una fine inimmaginabile per un pugile che è stato un simbolo. Un ‘povero ma bello’ dell’Italia del secondo dopoguerra. Nato a Trieste nel 1926, Mitri esordì nel mondo della boxe all’età di vent’anni senza neppure accorgersene. Mentre era impiegato all’ufficio Economato del Comune di Trieste cominciò a frequentare una palestra di via Rigutti, bruciando le tappe fino a diventare un pugile professionista. Nel 1948, nel giro di ventiquattro mesi, riuscì nell’impresa di conquistare prima il titolo italiano e poi quello europeo dei pesi medi.
Da triestino, le sue vittorie vennero strumentalizzate dalla politica, impegnata a definire lo status della città contesa dalla Jugoslavia. Le prime pagine garantite al simbolo patriottico, unite a una bellezza solare, ne fanno un idolo nazionale. Una star, una delle prime icone mediatiche e uno dei primi campioni sportivi a incrociare il suo successo con quello dello show business. Nel 1948 sposa Fulvia Franco, Miss Italia, un evento che interessò tutta l’Italietta che si lasciava alle spalle la guerra, il fascismo, la povertà.
Il mondo sembrava ai piedi della Tigre di Trieste. E lui prova a prenderselo. Il 12 luglio 1950, nel giorno del suo ventiquattresimo compleanno, Mitri salì sul ring del Madison Square Garden di New York per affrontare il mitico “Toro del Bronx”, Jake La Motta, in un incontro valido per il titolo mondiale dei pesi medi.
Parte bene Tiberio, delle prime sette riprese se ne aggiudica cinque ai punti. Solo che La Motta non è alla sua portata. La Motta è oltre per potenza, rabbia, tecnica. Si mangia il ring, centimetro dopo centimetro. Fino a mangiarsi pure Tiberio, la sua faccia d’angelo, la sua fortuna.
La violenza dei colpi subiti è devastante. «C’era fumo, faceva caldo», ricordò Mitri nel suo libro autobiografico La botta in testa, «chissà se potevo rovesciare tutto. Ci provavo. Tentavo. Senza armi contro il Toro. Nella mischia senza risparmio, incassavo, colpivo. L’ho cercato e voluto io questo incontro e adesso vado fino in fondo, pensavo».
Resiste. Arriva in fondo, disputando quindici riprese, facendosi massacrare per salvare l’onore e il suo sogno. Alla fine il Madison Square Garden lo saluta in piedi, applaudendo. Non è da tutti essere trattati così nel Tempio.
Quella sera qualcosa si rompe. La Tigre di Trieste non disputò mai più un incontro per il titolo mondiale, ma combatté ancora per sette anni con alterne fortune. Nel 1954 divorziò da Fulvia Franco – che i suoi tifosi accusavano del calo del campione – rivinse il titolo europeo, perdendolo poco dopo. Si ritirò nel 1957, con un score di tutto rispetto: 101 incontri disputati con 88 vittorie, 7 pareggi e solo 6 sconfitte.
Dei due talenti che aveva, il pugilato e la bellezza, gli restava la seconda. E allora cinema. Anche in quel mondo parte bene, recitando ne I soliti ignoti con Totò e ne La grande guerra al fianco di Vittorio Gassman e Alberto Sordi, anche in Addio alle armi con John Houston. Ma dal 1975 in poi anche la sua avventura come attore terminò quasi del tutto, dopo più di venti film.
Senza un soldo in tasca, avendo bevuto tutto quello che poteva, spendendo per la cocaina (finirà anche in carcere) circondato di donne che duravano poco, assistendo alla morte prematura dei due figli, Alessandro (morto di HIV) e Tiberia (morta di overdose) e di una delle tre ex mogli. Trastevere, mentre aspettava che il Parlamento italiano deliberasse per lui una piccola pensione in memoria del suo passato, lo aveva adottato, proteggendolo, a un passo dalla miseria. Con l’Alzheimer come ultimo avversario.
Un mese prima di morire, venne intervistato dal Corriere della Sera. Un dialogo straziante, fatto di ombre e di ricordi che scivolano via, come pugili bravi a schivare i colpi. Nell’intervista, rispetto alla sua situazione, diceva: «Non mi lamento. Mi piace andare indietro con la memoria. Trovo una grande volontà di stare nei ricordi, dove tutto è bello». Quando anche i ricordi hanno iniziato ad andare via, Tiberio ha iniziato a camminare lungo quel binario, incontro al suo passato.
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