Le urne tutte uguali dei caduti di Gonars, campo di concentramento fascista. Le scritte incise dai prigioneri di Begunje, castello prigione nella zona di occupazione nazista della Slovenia. La nascita del nazionalismo e dello squadrismo di confine, i segni di memoria per le strade e le piazze di Trieste. Le alte mura della Risiera di San Sabba, unico lager con forno crematorio sul territorio italiano. Le storie e le memorie degli infoibati di Basovizza e quelle degli esuli italiani da Istria e Dalmazia, che dagli anni Cinquanta furono accolti nel modenese.
Sono alcune delle immagini e dei temi toccati dal progetto “Storie dal confine mobile: una redazione di studenti tra Venezia Giulia e Slovenia”.
Nel novembre 2014, novantadue ragazzi e ragazze di cinque scuole della provincia di Modena e i loro insegnanti hanno partecipato a un viaggio di conoscenza su un territorio che è un microcosmo della storia del Novecento: il confine che separa l’Italia dall’attuale Slovenia.
Confine orientale per l’Italia, confine mobile per segnalare la complessa dinamica di conflitti e contese nazionali che, a partire dall’Impero austro-ungarico e attraverso la Grande guerra, si intrecciano poi con fascismo, nazismo e comunismo jugoslavo.
Sono le vicende alle quali, dal 2004, lo stato italiano ha dedicato il “Giorno del Ricordo”, individuando la data del 10 febbraio per “commemorarle” e “diffonderne la conoscenza”.
Tra i ragazzi partecipanti al viaggio, organizzato da Istituto storico di Modena, Fondazione ex Campo Fossoli e Fondazione Villa Emma con un contributo dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, quattordici (con il coordinamento di Giulia Bondi) hanno dato vita a una redazione multimediale. Durante il viaggio hanno raccontato l’esperienza “in diretta”, sui social network Facebook e Instagram.
Al ritorno, hanno descritto i luoghi visitati in un lungo reportage accompagnato da fotografie, disegni e video.
Ecco una sintesi del loro lavoro.
Gonars, un campo fascista
(Matteo Buffagni)
Il campo di Gonars nacque nel 1941 per prigionieri di guerra (sloveni e croati), l’anno successivo però vi fu un mutamento all’interno del campo stesso, che diventò nei fatti un campo per la detenzione di civili: dal 1942 erano detenuti soltanto tre prigionieri di guerra ed erano presenti 450 soldati addetti alla sorveglianza dei prigionieri. Gli internati civili raggiunsero la cifra di 6mila.
In poche parole, ogni croato o sloveno era considerato un nemico. Non c’erano abbastanza alloggi per tutti e circa 1200 persone furono collocate in tende, soffrendo perciò moltissimo nei mesi freddi. Nel periodo di attività del campo morirono circa 500 persone, principalmente per la fame e per il freddo.
Lo possiamo evincere dalle parti di lettere dei detenuti arrivate ai giorni nostri, grazie a una pratica burocratica della censura fascista. Le parti censurate delle lettere venivano cancellate; ma prima di farlo venivano ricopiate e conservate. Da queste lettere si potevano percepire i vari problemi del campo come quello, già citato, della fame.
A un reclamo presentato da un medico di un altro campo, Arbe, sulle condizioni dei prigionieri, il generale fascista Gastone Gambara, rispose, per iscritto: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Il museo di Lubiana
(Lorenzo Bortolazzi)
La mostra permanente del museo di Lubiana riguarda tutta la storia della Slovenia del XX secolo, partendo dallo scoppio della prima guerra mondiale. Un chiaro esempio di come le popolazioni italiane e quelle slovene abbiano ricordato in maniera diversa questa guerra è quello che gli italiani chiamano disfatta di Caporetto (che subirono dagli austriaci nel 1917), mentre gli sloveni meraviglia di Caporetto.
In questo caso si può notare molto bene quanto le memorie di due popoli siano costruite diversamente a partire però dallo stesso avvenimento.
Dato che il 60% degli uomini abili a combattere veniva mandato in guerra, la figura della donna in Slovenia si rafforzò sempre più, fino a quando addirittura riuscirono a ricoprire quei lavori che prima spettavano agli uomini. Nacque il fenomeno dell’emancipazione femminile slovena.
Gli uomini che partivano per la guerra lasciavano a casa non solo le donne con le loro responsabilità, ma anche, banalmente, i vestiti. Sì, proprio dei semplici vestiti rinchiusi in un baule sono tra le cose che più hanno fatto pensare i ragazzi.
Gli uomini prima di partire chiudevano in questa specie di forziere gli abiti da civile che indossavano tutti i giorni. È come se avessero chiuso ufficialmente i ricordi in qualcosa di sicuro, che non potrà essere aperto fino a che non si tornerà. Ma anche se la vita li abbandonerà, ciò che quei bauli contengono non andrà mai perso.
I ricordi non muoiono con le persone. Loro diventano sempre più vivi, giorno dopo giorno. Sembra una follia a pensarci, ma è come se bussassero sulla porta del baule, in attesa che qualcuno gli apra, così da ascoltare le loro storie. L’unica pretesa che hanno i ricordi è quella di raccontare.
E allora, lasciamoglielo fare.
Begunje, il Museo degli ostaggi
(Sara Martinelli)
Il Castello di Begunje, nell’Alta Carniola, fu costruito all’inizio del XVI secolo grazie all’influenza di Ivan Kacijanar, generale e comandante delle frontiere militari della provincia di Carniola. Aveva dunque funzione di castello, ospitava la famiglia Kacijanar, e veniva chiamato anche Katzenstein Castle.
Immediatamente dopo l’occupazione del 1941, i tedeschi costruirono dei bunker tutto intorno al perimetro del castello. Furono utilizzati inizialmente come luoghi di transito e raccolta per le persone arrestate che avrebbero dovuto essere deportate da lì a poco, quando il castello sarebbe diventato una vera e propria prigione sotto il controllo della polizia.
Nei primi mesi la resistenza contro le forze naziste era molto forte e a Begunje venivano imprigionati solo ribelli del movimento della resistenza. Durante la guerra, poi, la sua funzione venne estesa anche ai semplici civili che non fiancheggiavano questo movimento di difesa.
Durante tutto il periodo di funzionamento dello stabile 11477 persone vennero rinchiuse all’interno di celle, 9196 maschi e 2281 femmine. L’80% dei prigionieri aveva meno di 40 anni e la metà era addirittura sotto ai 30.
La struttura fu poi occupata da un gruppo di partigiani il 4 maggio 1945: 632 ostaggi vennero liberati e 80 guardie naziste su 92 furono catturate.
Il museo commemorativo degli ostaggi, inaugurato nel 1960, è stato allestito nello stabile annesso al castello, che dal 1952 ha funzione di ospedale psichiatrico. Qui si possono visitare dieci delle celle nelle quali i prigionieri hanno vissuto tra il 1941 e il 1945 e al loro interno, sulle pareti, si possono osservare i graffiti che hanno inciso durante la loro permanenza.
Tutti questi segni e simboli riportano nomi, date, disegni e pensieri spezzati da una sofferenza indescrivibile che si può sentire a pelle appena si entra nelle stanze. Alla fine del corridoio si arriva a un’altra piccola stanza che contiene lastre in granito con sopra incisi i 20 nomi dei campi di concentramento dove furono internati i prigionieri all’uscita dal Castello prigione.
Boris Pahor, un intellettuale di confine
(Sa. Mar.)
In una conferenza durante il nostro viaggio, la professoressa Mila Orlic ci ha presentato la figura di Boris Pahor. Pahor è uno scrittore di lingua slovena, nato il 26 agosto 1913 a Trieste, che in quegli anni si trova sotto l’impero asburgico. Ha vissuto durante anni di grande cambiamento e ha assistito alle più grandi tragedie dell’Europa del Novecento.
Nei suoi libri Pahor cerca di esporre le sensazioni e i punti di vista del popolo sloveno, parlandoci quindi delle esperienze che ha acquisito e delle sensazioni provate durante tutti questi anni.
Negli anni Venti, il nazionalismo si sviluppò in Italia in modo violento attraverso la nascita dello squadrismo di confine (incendio del Narodni Dom a Trieste il 13 luglio 1920; 134 edifici distrutti o incendiati tra 1919 e 1920).
Con la riforma Gentile del 1923 le scuole slovene e croate vennero chiuse e la lingua slovena venne vietata. In questo periodo Pahor frequentò una scuola in lingua italiana; nel libro da lui scritto Tre volte no – il titolo rappresenta il modo in cui lui si oppone a fascismo, nazismo e comunismo – racconta un aneddoto delle lezioni in questa scuola.
Un giorno il professore gli chiese di leggere un tema da lui realizzato davanti all’intera classe, e in quell’occasione venne deriso per aver scritto «Il piroscafo s’annegò» anziché affondò.
Allora non conosceva bene l’italiano perché gli era stato imposto e soprattutto non lo considerava affatto la sua lingua. Nel libro scrive inoltre che durante i minuti in cui veniva preso in giro arrossì e si chiese perché il maestro lo tormentava chiedendogli di proseguire nella lettura, perché voleva infliggergli un’ulteriore umiliazione.
Il maestro agiva secondo il metodo del regime fascista, che non solo proibiva la lingua slovena, ma la considerava brutta, una specie di dialetto.
La Risiera di San Sabba, un lager italiano
(Camilla Franzoni)
La Risiera di San Sabba – stabilimento per la lavorazione del riso edificato nel 1898 – venne utilizzata dopo l’8 settembre 1943 dall’occupatore nazista come campo di prigionia, e destinato in seguito allo smistamento dei deportati diretti in Germania e Polonia, al deposito dei beni razziati e alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Il 4 aprile 1944 venne messo in funzione anche un forno crematorio.
Nel 1965 la Risiera di San Sabba fu dichiarata monumento nazionale con decreto del Presidente della Repubblica. Nel 1975 la Risiera, ristrutturata su progetto dell’architetto Romano Boico, divenne Civico museo della Risiera di San Sabba.
Con la ristrutturazione del 1975, agli elementi architettonici preesistenti vennero aggiunti i muri perimetrali in cemento armato. Il forno crematorio e la ciminiera, distrutti dai nazisti in fuga, vennero evocati rispettivamente con una piastra e una scultura entrambe in metallo.
Oggi all’interno della Risiera è possibile vedere il monumentale ingresso, caratterizzato da questi alti muri in cemento armato, materiale molto grezzo, il quale dopo alcuni anni tende a inscurirsi e a diventare quasi nero. Queste due alte mura non a caso sono state volute proprio all’entrata del monumento dall’architetto Boico, poiché rappresentano un sentimento di prigionia, di chiusura e paura di non poter più uscire da quel luogo.
Sulle pareti delle celle all’interno della Risiera si trovavano numerosi scritti e incisioni, oggi scomparse. I testi sono però stati trascritti da Diego de Henriquez, studioso e collezionista triestino, uno dei primi a entrare nella Risiera dopo la Liberazione
Secondo calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze, il numero delle vittime cremate in Risiera è oscillante tra le 3 e le 5mila persone (triestini, sloveni, croati, friulani, istriani ed ebrei). Ma un numero ben maggiore di prigionieri – ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei – sono passati dalla Risiera e smistati nei lager o al lavoro obbligatorio. Vi transitarono – diretti a Buchenwald, a Dachau, ad Auschwitz – più di 25mila persone.
Gente di nazionalità, credo religioso e politico diverso furono accomunati da un destino crudele, bruciarono nella Risiera o vennero deportati per un viaggio quasi sempre senza ritorno.
Trieste e i segni della guerra
(Camilla, Luca, Mattia e Sara)
Dopo la partenza da piazza Unità, con la sua meravigliosa vista sul mare, inoltrandoci nella città ci siamo soffermati sul Silos, che fu un centro di raccolta profughi per le persone che presero parte all’esodo tra il 1944 e il 1956. Questa struttura accolse cioè gli abitanti di Fiume, dell’Istria e della Dalmazia in fuga dalla Jugoslavia di Tito.
Oggi di fronte all’entrata si trova una placca commemorativa in marmo che è testimonianza della permanenza di questi profughi, i quali per molti anni furono costretti a vivere nel disagio e nella sofferenza.
Continuando il nostro percorso siamo giunti di fronte al Narodni Dom, che era sede delle organizzazioni degli sloveni triestini: un edificio plurifunzionale nel quale si trovavano anche un teatro, un caffè e un albergo. Il 13 luglio 1920 venne incendiato da un gruppo di fascisti. Il loro scopo era quello di eliminare un luogo simbolico della cultura slovena, dal momento che questo edificio non rappresentava affatto una minaccia per il regime.
Oggi la struttura si presenta massiccia e imponente, a contrasto con la fragilità che esprimeva tra le fiamme del 1920. Vicino al Narodni Dom negli anni successivi all’incendio fu costruito un altro palazzo, con il fine di nascondere le macerie e di insabbiare le barbarie compiute dai fascisti.
Procedendo verso piazza Oberdan, abbiamo fatto una tappa anche di fronte all’attuale conservatorio di musica Giuseppe Tartini in via Ghega, ex sede delle truppe nazifasciste che occupavano Trieste. Qui, ci ha spiegato Fabio Todero, il 23 aprile 1944 furono giustiziate 51 persone, impiccandole e lasciandole penzolare dallo scalone e dalle finestre del palazzo.
La Foiba di Basovizza
(Luca Lasagni)
La Foiba di Basovizza è situata sull’altipiano carsico nel comune di Trieste. In origine fu un pozzo scavato per l’estrazione del carbone, ma fu abbandonata per la sua improduttività.
A guerra finita, nel 1945, fu utilizzata dai partigiani jugoslavi, durante il periodo di occupazione di Trieste, per occultare numerosi corpi principalmente di italiani, ma anche tedeschi e sloveni anticomunisti.
Tra gli infoibati ci furono civili, carabinieri, finanzieri, guardie carcerarie e chiunque fosse in contrasto con il regime comunista jugoslavo.
L’esecuzione – come spiegatoci dallo storico Fabio Todero – avveniva con metodi atroci e perversi. Spesso, infatti, i prigionieri venivano legati a coppie o gruppi e veniva fucilato uno solo di questi in modo tale che con il peso del corpo trascinasse con sé nella cavità gli altri, ancora vivi.
Durante la visita Todero ha riflettuto su quanto sia importante distinguere tra le persone e non commettere l’errore di ragionare per categorie o per etnie. Ha perciò portato come esempio la testimonianza della madre, la quale ha assistito a due scene dove i protagonisti vestivano la stessa divisa ma il finale fu diverso.
Nella prima scena vide due jugoslavi prendere una persona e sbatterle la testa contro il muro finché questa, una volta crollata a terra, non si rialzò più; nella seconda, due ufficiali jugoslavi entrano nella casa della madre di Todero con l’intenzione di perquisirla, ma quando vengono informati della presenza di un invalido in casa, salutano molto cortesemente ed escono.
«Questo – afferma Todero – ci fa capire che nel cuore dell’uomo c’è sempre la possibilità di scegliere. Chi nel ‘45 spinge qualcuno in una foiba o agisce all’interno delle logiche repressive di un sistema che non ha precedenti – il che comunque non lo giustifica – comincia un percorso che lo porta a compiere atti spaventosi.
«Chi lo fa oggi, nel 2014, i precedenti li conosce. Se fa esattamente le stesse scelte con altre persone, per esempio immigrati, islamici o clandestini è due volte responsabile perché oggi sa a cosa portano le parole, le accuse e le discriminazioni».
Fossoli: da Campo di concentramento a Villaggio San Marco
(Luca Lasagni e Mattia Bonantini)
Il viaggio del confine orientale si è concluso con una visita al campo di Fossoli, frazione di Carpi (Mo). Il Campo di Fossoli nacque come campo di prigionia allestito da italiani nel maggio 1942.
Nel 1943 sbarcarono gli Alleati per liberare l’Italia dal fascismo e Mussolini fu destituito e imprigionato in Abruzzo. La notte tra l’8 e il 9 settembre il campo fu circondato dall’esercito tedesco e tutti i residenti nel campo furono trasferiti in Germania.
Il 30 novembre 1943 con un ordine di polizia si decise di arrestare tutte le persone di origine ebraica e di imprigionarli, venne quindi riaperto il campo di Fossoli, il 5 dicembre 1943.
Dal 15 marzo 1944 il campo entrò in mano alle SS. Dal campo partivano convogli di prigionieri diretti nei campi di concentramento in Germania. Tra questi partì anche Primo Levi diretto ad Auschwitz.
L’11 luglio una ventina di internati furono prelevati e portati al poligono di tiro di Cibeno (Carpi) dove gli vennero fatte scavare delle fosse. Il giorno seguente una settantina di prigionieri vennero divisi in tre gruppi e portati al poligono di tiro di Cibeno dove fu letta loro una sentenza di condanna a morte. A Genova erano stati uccisi alcuni tedeschi e si decise che per ognuno di loro sarebbero stati uccisi dieci prigionieri di Fossoli.
L’1 agosto 1944 il Campo di Fossoli venne ufficialmente chiuso e abbandonato.
Nel 1947 venne affidato a Don Zeno Saltini che lo utilizzò per la sua Opera Piccoli Apostoli che raccolse giovani orfani per farli crescere. La comunità prese il nome di Nomadelfia e si spostò nel 1952 a Grosseto.
L’ultima fase del campo va dal 1954 al 1970 e prese il nome di Villaggio San Marco che ospitò 250 famiglie di esiliati giuliano-dalmati provienienti, appunto, da Istria, Dalmazia e Venezia Giulia dopo che finirono sotto il controllo della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.
Un lunedì mattina del 1954 arrivano le prime sette famiglie. Il Villaggio San Marco, unico centro di accoglienza in Emilia-Romagna, si trasforma così da luogo di morte e violenza a luogo di rinascita.
Accade anche alla Risiera di San Sabba, che accoglie profughi giuliano dalmati e profughi politici in fuga dai paesi dell’Est.
I profughi erano persone che arrivavano dalla zona B (una porzione di territorio che nella suddivisione tra Italia e Jugoslavia era andata sotto la Jugoslavia), soprattutto casalinghe, operai, artigiani, qualche insegnante e impiegato. Le famiglie si dispongono nelle ex baracche dividendole in piccoli appartamenti, dove manca il riscaldamento (come anche nelle case dei carpigiani).
Per il primo anno e mezzo i profughi dipendono dal paese di Fossoli, poi iniziano ad aprire botteghe, due piccole falegnamerie, la scuola, l’asilo e la chiesa.
L’integrazione con la popolazione locale era difficile. I profughi arrivavano da un territorio comunista, cioè la Jugoslavia di Tito, in un territorio anch’esso comunista, l’Emilia-Romagna. Molti fossolesi vedevano i profughi come traditori di Tito, quindi anche del comunismo. Inoltre, lo Stato dava dei sussidi a questi profughi, che venivano anche a occupare posti di lavoro. Per questo gli italiani li vedevano come una minaccia e non li frequentavano.
Questa situazione inizia a sciogliersi quando i ragazzi del villaggio devono andare alle scuole medie e superiori a Carpi. Un altro fattore che porta all’integrazione è lo sport, perché si forma una squadra di calcio del villaggio che va a giocare in trasferta. Il campo quindi chiude quando al suo interno non restano più famiglie, l’8 marzo 1970.
Trionfi e atrocità
(Mattia Bonantini)
Durante la visita al museo di Lubiana, la guida ci ha detto: «Da noi sloveni la battaglia di Caporetto non viene considerata una disfatta ma un grande successo».
Per quanto sembri scontato per ogni battaglia che c’è stata nella storia c’è una parte che la ricorda come un grande successo, e quindi una vittoria, e un’altra parte che la ricorda come un fallimento e disfatta.
Questo è quello che succede per Caporetto: in Italia non viene celebrata la memoria di questa battaglia, mentre in Slovenia sì: quindi si può dire che ogni nazione ricordi i propri trionfi e non le proprie sconfitte ed errori.
L’Italia ha un giorno dedicato alla liberazione dal nazifascismo, infatti le memorie della seconda guerra mondiale che vengono tenute vive in Italia sono quelle dei partigiani, cioè l’azione che ha permesso all’Italia, assieme agli Alleati, di liberarsi da nazisti e fascisti; quindi quello che in Italia si ricorda è il trionfo morale nell’essersi ribellati ai nazisti e fascisti.
Ciò che non si ricorda della seconda guerra mondiale in Italia sono molti fatti accaduti sul “confine mobile” che abbiamo visitato, il confine orientale dell’Italia.
Non ricordiamo le sconfitte e nemmeno le atrocità che abbiamo commesso là, come l’oppressiva italianizzazione che abbiamo imposto ai croati e sloveni, gli stermini commessi contro i civili perché accusati di essere partigiani oppure perché semplicemente erano sloveni o croati. Invece, ogni nazione dovrebbe essere attenta e consapevole: orgogliosa dei propri trionfi, ma senza mai scordare che anche quei trionfi contengono atrocità al loro interno.
[La redazione di “Storie dal confine mobile” è composta da Riccardo Baroni, Mattia Bonantini, Lorenzo Bortolazzi, Matteo Buffagni,Vincenzo Buono, Chiara Carpani, Rebecca Fiori, Camilla Franzoni, Luca Lasagni, Sara Martinelli, Sara Mazzone, Martina Molinari, Federica Nava, Licia Sabattini, con il coordinamento di Giulia Bondi. Le loro storie complete saranno disponibili on line su Medium].
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