Questione di scelte

La Grecia ha votato Syriza, in Spagna Podemos cresce sempre di più, ma l’Europa è sempre più lontana da una soluzione economica condivisa alternativa all’austerity

L’esito delle elezioni in Grecia ha mostrato con forza che una larga parte delle sua popolazione crede che un’alternativa esista ed esige che venga perseguita. La mobilitazione a favore di Podemos in Spagna – dove si andrà alle urne a maggio – suggerisce che anche nella Penisola Iberica il vento soffia in questa direzione; e lo stesso accade in Irlanda, dove il Sinn Féin si starebbe guadagnando sostegno crescente.

Basta austerità. Perché non funziona, come non funzionavano i salassi nelle pratiche mediche del passato. Perché, soprattutto, i dati macroeconomici dipingono un quadro lugubre, fatto di povertà e disoccupazione diffuse, disuguaglianze che si acuiscono e prospettive per il futuro che assomigliano a una traversata nel deserto, dove la Terra Promessa è una questione di fede e non di politica economica.

Un’alternativa è necessaria, lo chiedono tanti cittadini europei, se ne stanno rendendo conto anche vari esperti che pochi anni fa appoggiavano le misure di austerità imposte ai cosiddetti Paesi PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) o si limitavano a commentarle stringendosi nelle spalle, come se fosse l’unica opzione.
La crisi del debito nell’eurozona può essere letta secondo diverse lenti interpretative e diversi livelli di analisi. Il racconto più popolare e diffuso pone l’accento sull’irresponsabilità di Stati spendaccioni, di classi politiche che hanno speso oltre misura, contro il buon senso e i dettami della disciplina fiscale. E ora queste cicale devono affrontare l’inverno e i morsi della fame a causa della loro sconsideratezza. Ma se questa analisi pur contiene degli elementi di verità che possono toccare la nostra sensibilità, i fenomeni economici non sono una favola di Esopo.
Innanzitutto, i debiti dei PIIGS hanno storie e cause eterogenee (in merito all’Italia, qui la questione è bene discussa) e – elemento fondamentale – non sono sempre legati al settore pubblico: i casi di Irlanda e Spagna, un tempo portate a esempio per le loro roboanti performance economiche, sono infatti crisi di debito privato, poi diventato un indebitamento pubblico a seguito dei salvataggi.

Inoltre, il debito di qualcuno è, per definizione, il credito di qualcun altro, raramente ignaro delle condizioni di rischio cui sta andando incontro concedendo il prestito.

Tornando al tanto dibattuto caso della Grecia, quando la crisi esplose diverse banche tedesche e francesi erano pesantemente e pericolosamente esposte rispetto ai titoli di stato greci. Ma anche rispetto ai titoli di stato portoghesi e spagnoli. E anche rispetto ai prestiti fatti alle banche irlandesi e spagnole. Si potrebbe andare avanti così a lungo, rincorrendo le scatole cinesi degli interessi forti che un importante ruolo hanno giocato nella gestione della crisi dell’eurozona. Questa lettura insiste sul ruolo della finanza nel mondo di oggi, racconta di Paesi tenuti in vita perché possano onorare i loro debiti con banche e speculatori, sacrificando a tale scopo la politica e la spesa sociale nonostante le responsabilità di questi ultimi.

Chi deve dunque farsi carico della crisi, il debitore o il creditore? Chi è stato più spregiudicato o avventato? Le piazze di Atene e Madrid hanno dato la loro risposta a questa domanda.

C’è poi un’altra chiave interpretativa che evidenzia come la crisi dell’eurozona sia conseguenza di un’architettura istituzionale zoppa, che ha creato un’unione monetaria, ma non un’unione fiscale e politica. Si tratta di una questione complessa e articolata, una storia che andrebbe raccontata a parte (esaustive spiegazioni si trovano qui e qui).
Per avere un’idea, è sufficiente sottolineare come le differenze all’interno dell’eurozona si siano acuite in questi anni, sottraendo ai Paesi membri uno strumento di politica economica (il controllo sulla moneta e quindi sul tasso di cambio), ma non costituendo un’autorità centrale che potesse intervenire per armonizzare e limare le disparità produttive attraverso una politica di investimenti.
L’allargamento della forbice tra i primi della classe (Germania, Paesi Bassi e Finlandia su tutti) e i somari (i PIIGS) è stato nascosto sotto il tappeto della moneta unica, creando così in un sistema di libera circolazione dei capitali le condizioni per i processi di indebitamento di cui si è parlato.

Ma quando la crisi è esplosa alla Grecia è stato chiesto di vendere le proprie isole per fare cassa perché appunto mancava un’autorità centrale che potesse fare fronte alla situazione; nessuno si sognerebbe invece di chiedere alla California di vendere le sue spiagge perché a ripianare la sua difficile situazione fiscale ci ha pensato il governo federale americano.

Tutto questo è importante per comprendere che la crisi dell’eurozona è una crisi europea. Ed europea deve essere la sua soluzione. Dopo anni di misure economiche che dalla crisi messicana del 1982 vengono immancabilmente presentate come l’unica e necessaria strada per la credibilità, la crescita e il rigore morale ma che non hanno mai realizzato tali promesse, un cambio di rotta è doveroso. La Grecia si trova a giocare una partita a scacchi contro la Troika e, in particolare, la Germania, stretta com’è tra i suoi oneri debitori, una situazione sociale drammatica e un’economia in ginocchio, nonostante il belletto dei tassi positivi di crescita dell’ultimo periodo.
Il debito è una questione su cui molti economisti hanno perso il sonno, perché ti trascina a un bivio sull’orlo di un dirupo: o si ripaga e tutti gli altri obiettivi vengono subordinati a ciò, con sacrifici enormi e sofferenze sociali che sono sotto gli occhi di tutti; oppure si persegue la crescita attraverso investimenti e riforme strutturali (di quale tipo è un’altra storia ancora). Ma dove trovare i capitali se si è già indebitati?

Il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha bene messo in luce questa contraddizione e diversi economisti – a cominciare dal premio Nobel Stiglitz – hanno sottolineato l’importanza di legare le sorti del ripagamento del debito greco a un sostenuto percorso di crescita.

Dall’altra parte, appunto perché un debito è sempre il credito di qualcun altro, circa il 60 percento del debito greco è ora detenuto dai Paesi dell’eurozona, tramite il Fondo salva-stati oppure direttamente con prestiti bilaterali (la Germania è esposta per oltre 50 miliardi di euro, Francia e Italia per 40, la Spagna per 24). Se il debito greco fosse cancellato anche solo parzialmente (e parziali cancellazioni sono già state praticate nel 2012), le economie europee subirebbero dei contraccolpi, cosa non facile da far digerire ai loro cittadini. Specialmente perché la Grecia non è l’unico caso con cui l’eurozona e la Troika si devono confrontare.
Non esiste una soluzione facile, un colpo di spugna che cancelli tutti i problemi. Ma l’Unione Europea e i Paesi dell’eurozona devono decidere cosa vogliono diventare. La partita a scacchi potrebbe andare avanti a lungo, ma con quali conseguenze? O si continuano a portare avanti strategie nazionali, oppure si risponde in termini di sistema, perché del sistema tutto è il problema e le difficoltà sociali che ne sono conseguite sono preoccupanti. Superare la miopia politica e intellettuale è essenziale se si crede che il progetto europeo abbia ancora senso e si intende evitare che la prossima volta il sostegno non vada a Syriza o a Podemos, ma a proposte politiche con cui il dialogo sia meno praticabile. Un’alternativa deve essere costruita e raccontata, non solo ad Atene o Madrid, ma anche a Roma, Parigi, Helsinki, Berlino. Perché si può, perché non è da scellerati o idealisti. È qualcosa a metà strada tra la visione politica e il buon senso.

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