Cécile Kyenge durante la campagna elettorale per l’Europarlamento (foto Dante Farricella)
La sera del 5 febbraio, Cécile Kyenge, europarlamentare ed ex Ministro per l’Integrazione, ha pubblicato sul proprio profilo Facebook l’immagine di un orango accompagnata dalla frase ‘La satira dileggia i potenti e consola i più deboli. Il razzismo di un potente non è satira’. Lo stesso giorno, la Giunta per le immunità e le autorizzazioni del Senato aveva rifiutato l’autorizzazione a procedere per l’accusa di istigazione al razzismo contro il senatore Roberto Calderoli, il quale, il 13 luglio 2013, aveva usato la parola “orango” riferendosi all’allora ministro Kyenge nel corso di un comizio.
A qualche giorno di distanza come commenta la scelta della Giunta delle immunità del Senato, di negare l’autorizzazione a procedere contro Roberto Calderoli per averla definita “orango”?
Spero sia stato un incidente di percorso – chiamiamolo così – anche se abbastanza grave. A qualche giorno dall’accaduto, rileggendo il verbale che ha negato l’autorizzazione a procedere, lo sconcerto aumenta. Evidentemente il tema del razzismo, della diffamazione e della libertà di espressione non è ben conosciuto. Il giudice aveva già decretato che, in base alla legge Mancino del 1993, l’insulto a sfondo razziale è un reato. La Giunta non avrebbe dovuto scagionare Calderoli. Semplicemente dire se quelle parole potevano essere coperte da immunità parlamentare o meno. Dopo questo, il giudice avrebbe potuto procedere. I senatori hanno sostenuto di avere fatto una scelta tecnica, ma non è vero. Mai scelta è stata più politica di questa.
Il risultato è che il razzismo è ammesso, purché nell’esercizio delle funzioni parlamentari?
Proprio così. C’è la messa al bando del razzismo nella nostra Costituzione. C’è appena stata la Giornata della Memoria. E questa scelta li spazza via. Trovo ancora più grave che siano state persone del mio partito a non avere chiaro questo concetto. Anzi, lo hanno banalizzato, mettendo le parole di Calderoli allo stesso livello della satira, o di una diffamazione perseguibile su querela. Questi, invece, sono reati perseguibili d’ufficio. E la mia scelta è stata di dire: io non querelo, perché qui l’offesa non è alla sottoscritta. È una causa collettiva, che ci interessa tutti.
C’è stato qualche chiarimento con i colleghi di partito?
Dentro il partito non la pensiamo tutti allo stesso modo. Si capisce dai messaggi, che mi sono arrivati anche da persone della segreteria nazionale. Poi, il problema non è solo del Pd. Però siccome sono dentro a questo partito, pretenderei di più da chi fa un percorso quotidiano con me. Un partito che ha voluto fare, anche per esempio scegliendo la mia persona, delle scelte importanti di diversità e integrazione, poi dovrebbe essere più coraggioso e coerente.
Non si è sentita un po’ usata?
No, perché non si tratta di atteggiamenti di tutto il partito. Certo, mi si è acceso un campanello d’allarme. Penso che ci sia molta disinformazione e smarrimento su questi temi. Che, lo ripeto, non riguardano la mia persona ma i diritti di tutti. Il partito si costruisce giorno dopo giorno con le persone che ne fanno parte. Il punto è trovare un percorso condiviso e forte per esprimerci verso l’esterno. Non si può comportarsi come schegge impazzite, specie sul tema dei diritti mi sembra gravissimo.
Ma come si arriva a un percorso comune tra chi si batte per i diritti e chi ritiene che chiamare orango una donna di origine africana sia “esercizio delle funzioni parlamentari”?
Bisogna cominciare un lavoro culturale. A me questa vicenda ha fatto capire che c’è ignoranza su questi temi. Servirebbero delle scuole di partito, specialmente su temi come quelli dei diritti su cui c’è molto caos e smarrimento. Siamo ancora in tempo a recuperare. Ma se non lo facciamo vuol dire che condividiamo davvero poco. Bisogna girare le sedi del partito e l’Italia, per parlare di questi temi senza tirarsi indietro e senza avere paura di perdere le elezioni.
Quindi nella scelta dei suoi colleghi pensa che non ci sia malafede, ma ignoranza?
Potrebbe esserci anche malafede. Ho sentito gente dire che “Calderoli è un bravo senatore” oppure “La Lega ha degli iscritti e funzionari di colore quindi non è razzista”. Ma cosa c’entra? Io lo trovo gravissimo. Non si possono cercare sempre giustificazioni per non assumere la responsabilità delle proprie azioni e parole. In questo modo l’immunità parlamentare coprirebbe qualsiasi insulto. Ma la legge non dice così.
Anche alla luce di questo, cosa le sembra sia rimasto del lavoro che aveva fatto il suo Ministero dell’Integrazione?
Molte persone si sono mobilitate: quando la decisione passerà all’intera aula del Senato, probabilmente la scelta sarà diversa. Quello che mi fa piacere è che le persone cominciano a rendersi conto. Smettono di focalizzarsi sulle polemiche e cominciano a capire che questo è un tema più ampio. L’immunità parlamentare non si può toccare? Parliamone. Il razzismo in Italia non è un problema? Parliamone. La legge Mancino è lì come un soprammobile, ma non è conosciuta né applicata. Sono temi che dobbiamo affrontare, ma non per la sottoscritta. Perché mettono in gioco il ruolo e la responsabilità dei politici nell’esercizio delle loro funzioni.
In Europa qual è la situazione su questi temi?
Non tutti i paesi sono allo stesso livello. La situazione in Ungheria è molto grave, per esempio. Ma dobbiamo guardare ai paesi più avanzati. E poi, ricordiamoci che anche in Italia un consigliere della Lega, Raineri, è stato condannato a 150mila euro di multa per lo stesso reato di Calderoli. In pratica, per un reato identico, nel nostro paese, un cittadino paga, mentre un senatore coperto da immunità parlamentare si salva, e il suo insulto diventa “satira”.
E la legislazione?
Stiamo lavorando sul tema dell’“hate speech”. Bisogna cominciare a porsi delle domande, e capire quale è la linea rossa tra libertà di espressione e gli “hate speech”, quelli che in italiano si chiamano incitamenti all’odio o crimini d’odio. Tra culture diverse non è facile trovare un accordo, ma dobbiamo provare.
Su cosa altro sta lavorando in Europa?
Faccio parte del gruppo che deve monitorare le elezioni nei paesi africani, a cominciare dalla Nigeria. Stiamo lavorando su questo, e anche, naturalmente, sui salvataggi in mare, le modifiche al regolamento di Dublino e il tema dei richiedenti asilo. Serve più impegno, sia per i salvataggi, ripristinando il modello Mare Nostrum, perché Triton è inadeguato. E poi bisogna andare oltre. Se la Siria oggi è in guerra non si capisce perché le persone, per uscire da quel territorio, debbano essere lasciate in mano agli scafisti. Stiamo lavorando a programmi di reinsediamento per trasferire i profughi dai paesi vicini all’Europa. I dettagli sono ancora in corso di definizione, ma almeno c’è il segnale politico.
I paesi del nord Europa sostengono però di fare già molto rispetto all’Italia, nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Certo avrete discusso. A qualche parlamentare svedese è mai venuto in mente di chiamarla “orango” se non era d’accordo con lei?
No, mai naturalmente. Però gli xenofobi ci sono anche in Europa. C’è stato il caso di un deputato polacco di estrema destra che ha fatto un intervento razzista, non contro di me, ma razzista. C’è il gruppo britannico di Farage, c’è Marine Le Pen. Però sono attacchi politici, non personali. I miei avversari mi dicono che io faccio la vittima, ma quello che faccio è offrire alla società italiana la possibilità di andare oltre su questi temi. Comunque, sia la magistratura sia i cittadini lo hanno già capito, e sembrano molto più “avanti” rispetto alla politica.
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