tratto da InvisibleArabs
Una e condivisa. Il destino di Gerusalemme è di essere una e condivisa. Un’utopia. Lontana dai pragmatismi di cui fanno bella mostra in molti, tra cosiddetti opinion maker e politici e diplomatici. L’utopia, però, ha un fondamento, non solo ideale. Ne ero certa, quando l’ideatore di One Homeland, Two States, l’israeliano Meron Rapoport me ne parlò, nel settembre del 2012. Ne sono ancor più convinta, ora che attorno a questa visione si stanno raccogliendo consensi e intelligenze.
Non immaginavo, però, che di Gerusalemme ‘città aperta’ avessero parlato due uomini legati al processo di Oslo. Anzi, per meglio dire, i due uomini che ancora incarnano – nel bene e nel male – il processo di Oslo. Shimon Peres e Mahmoud Abbas. Nel 2011, trattarono del destino di Gerusalemme in termini molto diversi da quelli usati sino ad allora.
Niente uscì fuori dalle segrete stanze in cui Peres e Abbas parlarono, assieme ai due più stretti consiglieri, Avi Gil per l’allora presidente dello Stato di Israele, e Saeb Erekat, l’uomo di tutti i negoziati per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I colloqui furono diversi, a Roma, a Londra,soprattutto ad Amman. Nulla però si seppe, perché Netanyahu all’ultimo minuto bocciò il piano e ritirò il suo appoggio.
Ora i contenuti del negoziato sono stati svelati da Avi Issacharoff, uno dei migliori giornalisti israeliani, che ha pubblicato un lungo resoconto su Times of Israel. Interessanti soprattutto i dettagli riguardanti Gerusalemme.
“Fu raggiunta un’intesa – rivela Issacharoff – su alcune delle questioni più controverse, mentre il nodo esplosivo del Bacino Sacro fu lasciato a uno stadio successivo. Peres e Abbas si trovarono d’accordo sul fatto che Gerusalemme sarebbe stata la capitale di entrambi gli Stati e che sarebbe rimasta una città aperta. I quartieri israeliani sarebbero stati sotto la sovranità israeliana; i quartieri arabi sotto la sovranità palestinese. […] i palestinesi suggerirono anche, senza nessuna opposizione israeliana, che l’accordo di pace di pace avrebbe istituito un organismo municipale congiunto che si sarebbe occupato di elettricità, acqua, fognature nelle due capitali, che sarebbero state divise solo da una linea immaginaria”.
Città aperta, condivisa, organismo municipale congiunto… Le stesse parole usate da qualche uomo di buona volontà tacciato come utopista. Ecco la Gerusalemme una e condivisa, secondo questa idea che ho riportato nelle ultime pagine del mio libro su Gerusalemme, pubblicato da Feltrinelli nel 2013.
Gerusalemme rappresenta il simbolo della impossibilità di una divisione. Folle pensare che Gerusalemme non venga considerata una dagli israeliani. Altrettanto folle pensare che per i palestinesi Gerusalemme sia solo il piccolo settore a oriente della Linea Verde, e che i quartieri dell’espansione borghese palestinese verso occidente e il mare (Musrara, Talbyeh, Qatamon e via elencando) non ne facciano parte.
E dunque? Dal punto di vista teorico e culturale, la ricetta è tanto semplice quanto rivoluzionaria: Gerusalemme deve essere una e condivisa. Deve, cioè, rimanere unita e deve essere condivisa, una città per le due comunità.
Il messaggio di alcuni settori intellettuali israeliani e palestinesi che stanno riflettendo su una direzione che vada oltre le due alternative sinora proposte, la Two-States-Solution contrapposta alla One-State-Solution, anzi, è il seguente: “Su Gerusalemme, non a caso, siamo d’accordo tutti – israeliani e palestinesi – che rimarrà una città aperta, unita, senza confini interni, capitale di due Stati. Una città, però, con uno statuto speciale, come Bruxelles per esempio, con un sindaco eletto da tutti e una rappresentanza eguale per le due parti nel consiglio comunale”. “A Gerusalemme più che in qualunque altro luogo – dicono coloro che pensano a una Terza Via -, non si attaglia il modello della separazione. Non solo perché le realtà demografiche e geografiche create da Israele nel corso del suo governo sulla città hanno reso la separazione impossibile, ma anche perché l’importanza e la sacralità religiosa e internazionale della città significa che deve rimanere aperta”.
Una città aperta, unita, ma soprattutto condivisa. Una sola realtà urbana, i cui confini municipali debbono essere ridisegnati per poter inserire dentro il suo corpo tutti quei sobborghi, quartieri, unità residenziali che su Gerusalemme gravitano. Che della città fanno parte. Sono sobborghi diversissimi tra di loro, e il cui accorpamento formale definitivo a Gerusalemme farà storcere il naso a molti.
Tanto per essere chiari e specifici, della ‘Gerusalemme una e condivisa’ dovrebbero far parte Maaleh Adumim, la prima colonia israeliana trasformata in municipio appena alle propaggini di Gerusalemme, e, allo stesso titolo, Abu Dis e Azzariyah, villaggi palestinesi che ora si trovano al di là del Muro di separazione costruito da Israele.
Dovrebbero essere dentro Gerusalemme una e condivisa i quartieri israeliani a nord-est, considerati anche dalle Nazioni Unite come colonie costruite dentro la parte occupata della città, e cioè Pisgat Zeev, Ramot, Neve Yacoov. E anche Gilo, la colonia costruita tra Gerusalemme e Betlemme. Allo stesso modo, dovrebbe essere dentro Gerusalemme la stessa Qalandya, considerata parte della città sino a quando non è stato costruito il Muro di Separazione e quel terminal che è – assieme al valico di Betlemme e alla barriera di cemento che chiude la città della Natività – un vero e proprio scandalo. Scandalo per le coscienze del mondo, come lo sono tutti i muri.
Secondo l’idea di Gerusalemme una e condivisa, tutto il mosaico di quartieri, insediamenti, colonie, sobborghi storici, Città Vecchia, luoghi sacri dovrebbe rappresentare una “unità urbana unica, in cui vi sia totale libertà di movimento”. Una città amministrata da un governo comunale eletto dai cittadini che vi risiedono, sia israeliani sia palestinesi, fuori dallo schema attuale, e allo stesso tempo fuori dall’idea di un’amministrazione internazionale di Gerusalemme.
Niente di più specifico, per ora, sulla questione della sovranità congiunta di israeliani e palestinesi sulla Grande Gerusalemme, ma la mancanza di precisione in quello che non è certo un dettaglio non vuol dire che l’idea di per se stessa – Gerusalemme una e convidisa – sia il frutto di una utopia senza alcun aggancio con la realtà. Al contrario, la Gerusalemme una e condivisa nasce dalla piena consapevolezza di quello che succede ogni giorno nelle strade della città: è la vita quotidiana a dire, per prima, che Gerusalemme non può essere divisa né, allo stesso modo, sotto occupazione per una consistente parte della sua superficie e della sua popolazione. È uno status quo che può durare – anche per un tempo indeterminato – ma che non porta né pace, né pacificazione, né giustizia. Non porta neanche, col passare del mondo, a una normalizzazione.
Chi riflette su una soluzione differente da quella di Oslo, o dalla one State solution, sa bene quanto sia complesso realizzare anche l’idea di una Gerusalemme una e condivisa. C’è però un fatto storico incontrovertibile: “per tremila anni, sino a oggi, Gerusalemme è stato il laboratorio di ogni sorta di idee che poi si sono irraggiate e diffuse in tutto il mondo. Non c’è alcuna ragione perché la città non debba, oggi, essere il laboratorio per nuove idee sulle questioni di sovranità e cittadinanza”.
Dopo la morte per agonia della pace di Oslo, insomma, è possibile di nuovo pensare, riflettere, uscire dal recinto di una pace tanto fissa nei suoi parametri quanto irrealizzabile. Tutto è possibile, di nuovo, almeno dal punto di vista delle idee. Idee da tradurre poi, certo, in politica e diplomazia.
Idee, comunque, che in massima nascono da chi vive sulla terra di Israele-Palestina, da altri tipi di èlite, lontani da nomenkature ed establishment politici, e che – se possono sembrare utopistiche – è spesso soltanto perché non seguono più i binari rigidi di Oslo. Sono i binari arrugginiti che non hanno portato alla pace, e semmai solo a uno status quo ventennale, fatto di accordi dettagliati sulle questioni finanziarie e di sicurezza, e summit nei diversi resort che costellano il Medio Oriente, e che ha soddisfatto una sola delle due parti in causa, nella fattispecie la parte israeliana, che ha continuato a costruire colonie nel cuore della Cisgiordania.
Gerusalemme è una perché l’identità gerosolimitana è fatta di strati storici e di uomini e donne appartenenti a comunità diverse. Gerusalemme non può essere divisa perché è multipla. Gerusalemme non può essere sacralizzata perché è fatta della carne dei suoi abitanti. Oltre le fedi, esiste e vive il suo dramma quotidiano una Gerusalemme senza Dio, a cui in pochi prestano ascolto.